Palermo, 05 January, 2021 / 11:00 AM
“Ho prestato giuramento; da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.
Scriveva così Rosario Angelo Livatino, il “ragazzino” che a soli ventisette anni ricoprì l’incarico di sostituto procuratore della Repubblica al Palazzo di Giustizia di Agrigento, e che a breve vedremo annoverato tra i martiri del terzo millennio, a trent’anni dalla morte per mano mafiosa in odium fidei.
Nelle sette agendine ritrovate, dove Livatino annotava sinteticamente gli stati d’animo, le gioie e le preoccupazioni vissute dal 1978 fino a dieci giorni prima dell’attentato del 21 settembre 1990, rintracciamo la particolare attenzione che il Magistrato siciliano riservava ai valori della famiglia, in modo particolare nel rapporto con i propri genitori e in quel desiderio di amore coniugale che non riuscì a coronare, presagendo il drammatico attentato.
Abbiamo chiesto ad Enzo Gallo, giornalista e cugino di secondo grado del Giudice Livatino, una breve intervista.
Quale il ricordo più nitido e significativo della tua familiarità con Rosario Livatino?
Ricordi di Rosario ne ho tanti ed escono fuori al momento… Quello che sicuramente mi porterò più dentro e che solo adesso riesco a spiegarmi è quello del suo rifiuto di farmi da testimone di nozze ad inizio del 1990. Mi disse che non avrebbe potuto perché coincidendo con il periodo della Santa Pasqua avrebbe potuto essere di turno e non gli andava di deludere me e colei che sarebbe stata di lì a poco mia moglie. Oggi mi spiego quel rifiuto davvero molto garbato. Sapeva che la sua sorte era segnata e non avrebbe voluto stringere un ulteriore vincolo che sarebbe durato poco. Il 21 settembre di quello stesso anno infatti fu vigliaccamente ucciso. È un ricordo tra i più presenti e che mi fanno sentire ancor di più la mancanza fisica di Rosario.
In una delle famose agendine Rosario Livatino annota: “A Messa a Delia alla chiesa della Madonna dell’Itria con Mamma e Papà. Ci siamo comunicati tutti”. Quanto è importante oggi questa annotazione?
Questo, assieme a tanti analoghi appunti rivelano la personalità e la religiosità di Rosario Livatino. Non è che Rosario appuntasse ciò per statistica o per vezzo. Rosario quanto scriveva in privato non era per farlo leggere ad altri né per verificare il suo comportamento. Lo faceva in questo caso perché al sacramento della confessione e a quello della comunione riservava un’importanza di primo piano. Ancor più importante quando la famiglia si trova unita anche in questa occasione in una chiesa che tutto sommato non è la loro o non è la solita. Un momento di Fede vissuto intensamente ma anche di libertà e spensieratezza perché lontana dalla sua Canicattì, che è la città dove si concretizza il progetto di ucciderlo.
Il rapporto tra Rosario e i suoi genitori, che cosa ritieni non sia stato ancora approfondito?
Ritengo che quello che era utile approfondire è stato fatto. Soprattutto per il processo di beatificazione. Tutto il resto che non è stato approfondito non era rilevante ai fini del processo diocesano. Avendo avuto la fortuna di conoscerlo e di aver condiviso con lui parte della sua intimità e complicità con i suoi genitori, egoisticamente dico che è giusto così. Ci sono degli aspetti, degli sguardi, delle sensazioni impossibili da raccontare e cristallizzare su carta e men che meno in un processo di beatificazione. Convinto di non esagerare, un ulteriore approfondimento ci avrebbe magari donato un Livatino non credibile proprio per l’eccessiva positività e disponibilità verso i suoi genitori.
In che cosa il legame familiare con il “beato” Livatino ha cambiato la tua vita?
Forse non mi crederete ma in nulla. Il distacco che mi sono sempre imposto nella voglia di conoscenza e studio della vita di Rosario Livatino per comprendere soprattutto le ragioni di un omicidio sempre difficile da accettare me lo sono ritrovato anche dopo quando è stato ipotizzato un possibile processo di beatificazione. Di mio ammiravo Rosario per quello che era in famiglia. Della sua storia professionale sino al 21 settembre non conoscevo nulla così come della formazione religiosa e un po’ di più della carriera scolastica. Per me era già un “modello ideale”. Le indagini ed i processi penali così come il processo di beatificazione mi hanno confermato di non aver sbagliato: Rosario era, è e sarà il “modello ideale” da qualsiasi angolazione ed aspetto lo si scruti. Grazie a Papa Francesco, ai cardinali Marcello Semeraro e Francesco Montenegro, ai vescovi Carmelo Ferraro, Vincenzo Bertolone e Alessandro Damiano e al postulatore diocesano don Giuseppe Livatino.
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