Milano, 06 November, 2020 / 6:00 PM
La scena si svolge nella grande casa milanese, agli inizi del Novecento. L’anziano Camillo Lorini sta per vivere il suo ultimo giorno su questa terra. Lui, garibaldino e “mangiapreti”, ha invitato a pranzo don Alessio, un frate amico di famiglia da lungo tempo.
Il quale, ad un certo punto, così si rivolge al padrone di casa che gli offre un bicchiere di vino: “Loro mangiapreti, signor Lorini, sono quelli che senza saperlo ci rendono manducabili come ha voluto esserlo il nostro Maestro, il quale ha detto:” Chi non mangia la mia carne non avrà la vita eterna”. Vede che anche lei ha una mansione provvidenziale?”. E quando si arriva al momento in cui il moribondo accetta di confessarsi, come se finalmente Dio venisse a trovarsi faccia a faccia con lui, il frate spiega che già "il Signore è qui: ha sempre abitato questa casa. Lei non avrebbe potuto esser tanto onesto e anche tanto felice, in tutti questi anni, se non aveste abitato insieme".
La chiave di lettura del grande romanzo Il velocifero di Luigi Santucci forse si trova proprio in questa scena e in questo dialogo. Il Signore vive in mezzo a noi, anche se noi non vogliamo o non possiamo rendercene conto. Vive le nostre gioie e i nostri dolori, è presente per mezzo dell’amore che viviamo nella relazione con gli altri, e anche nell’amarezza della solitudine, quando ci allontaniamo gli uni dagli altri. Vive nella bellezza di ciò che ci circonda, nel mistero e nello stupore di quanto ci accade.
Abbiamo letto questo romanzo dimenticato dai più – ma la Mondadori ne pubblicato una nuovo, bella edizione, piuttosto recentemente - in questi giorni tanto difficili e colmi di ombre e queste pagine hanno portato luce e consolazione. Si tratta di una lettura da consigliare vivamente proprio adesso ed è anche un’occasione per riscoprire, finalmente, questo scrittore molto amato e apprezzato negli anni Sessanta e Settanta, poi colpevolmente lasciato nell’oblio, da cui invece bisogna farlo uscire. Santucci è nato a Milano nel 1918 ed è scomparso nel 1999; ha esordito come scrittore con una monografia sulla letteratura per l’infanzia che riflette chiaramente il suo interesse per la pedagogia. E successivamente i “Misteri gaudiosi”, una sorta di “manifesto” della sua poetica, animata da una religiosità serena, percorsa da un senso dello humour, che non dimentica gli aspetti difficili della vita, le cadute e le fragilità di ogni uomo. Sono seguiti romanzi e racconti che hanno rapidamente conquistato lettori e critica, riuscendo anche a superare le diffidenze che suscitava la sua etichettatura come “scrittore cattolico”.
La sua opera più nota è appunto il romanzo “Il velocifero”, il cui titolo fa riferimento a quella che alla fine dell’Ottocento era la diligenza usata per i viaggi più celeri. Ed è anche l’oggetto-simbolo che attraversa quel periodo rivissuto con un senso di “favola” e la vita di una pittoresca famiglia milanese. Le grandi case della Milano più bella e poetica, gli oggetti e i riti delle stagioni e delle usanze, sia in campagna che in città scanditi dalle feste religiose, la Milano delle campagne a ridosso della città, non ancora diventata metropoli, in quella periferia che ancora assomiglia ai paesi e alle contrade disseminate verso i laghi e le montagne, le luci della Scala e delle vie del centro, con i grandi palazzi ricchi di vita e di storie, come la casa della famiglia protagonista del romanzo, una grande famiglia composta da padri, madri, zii, domestiche che sono ad ogni diritti membri dello stesso nucleo familiare, cugini, amici, cani, gatti, canarini, persino una scimmia e un pappagallo. E al centro di questo vortice variopinto vibrano le esistenze dei due fratelli Renzo e Silvia, il loro rapporto imprescindibile, tenero e anche, a tratti, drammatico, capace di rimanere forte in ogni frangente, di superare l’orrore della guerra e della morte.
Silvia farà una scelta radicale di vita, segnata dalla sua vocazione religiosa, che in un primo tempo non sarà accettata e capita da molti, a cominciare proprio dall’amato fratello Renzo, ma che poi illuminerà tutte le esistenze che ruotano dentro e intorno alla famiglia. Il tutto raccontato con un continuo alternarsi del registro comico, di quello poetico e drammatico. Il linguaggio probabilmente risulterà un po' arcaico per i lettori più giovani, persino faticoso, ma basta lasciarsi prendere dal flusso del racconto, del suo ritmo e si ritroverà anche il gusto delle parole elaborate, cercate, “lavorate” come se fossero creta, o come se fossero pietre preziose di un tesoro nascosto. Un gusto per la bella scrittura che oggi abbiamo quasi totalmente perduto. Il quadro in cui tutta la narrazione si muove è quello della bellezza della vita, delle misteriose strade percorse dalla misericordia di Dio che tutto salva e che a tutto dona nuovo significato e senso.
Così definiva Santucci stesso la sua opera: “Sintetizzo in una formula, in un’espressione il mio essere stato scrittore, credo che sarebbe questa. Che scrivo per lodare…Io ho lodato, ho cercato di applaudire, di risuscitare nella lode, quante più cose ho potuto…La lode, sì, come messaggio, come linguaggio, se non per salvare il mondo ( per guarirlo, ci vuole altro!), per aiutarlo, perché recuperi una qualche stima, una qualche fiducia in se stesso, perché esca dall’autodisprezzo, dalla disperazione e ritrovi l’amabilità”.
Luigi Santucci, Il velocifero, Oscar Mondadori, pp.350, euro 15
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