Roma, 27 April, 2020 / 2:00 PM
Ho letto con interesse, su queste stesse pagine, l’intervento di risposta al mio precedente articolo, nel quale affrontavo il tema della legittimità della sospensione delle sante Messe in forma pubblica. A questo proposito vorrei, in questa sede, chiarire due punti.
In primo luogo, da semplice studioso di diritto costituzionale e cultore della materia di Istituzioni di diritto pubblico, mi pare di aver comunque coerentemente impostato l’intero articolo dall’angolo visuale che mi compete, dimostrando le ragioni giuridiche per le quali, dal punto di vista dell’ordinamento statale, dovrebbero ritenersi viziate da nullità-inesistenza le norme che, da un lato, prevedono la sospensione delle cerimonie religiose (i.e. quelle dei decreti leggi emanati) e, dall’altro, sospendono unilateralmente la celebrazione delle sante Messe in forma pubblica (i.e. quelle dei DPCM adottati).
In questo senso, rispetto all’analisi giuridica da me condotta - analisi che, come tale, a mio avviso, non può lasciar spazio ad astratte giustificazioni di sorta (dura lex, sed lex), pure invocate – non sembra vi sia spazio alcuno per un richiamo al principio di leale collaborazione tra Stato italiano e Chiesa cattolica, per l’evidente motivo che a essere stato messo in discussione, con un’argomentazione non smentita, non è stato tanto il quomodo, quanto l’an del potere in capo all’Autorità civile. In concreto, il rispetto di quel principio avrebbe comunque dovuto indurre lo Stato italiano a seguire un’altra via rispetto a quella percorsa: chiedere all’Autorità ecclesiastica di coordinarsi con il Governo e di adottare (solo Lei!), qualora possibile, dei provvedimenti di sospensione temporanea delle celebrazioni liturgiche alla presenza del popolo, così garantendo il rispetto delle sue prerogative e delle sue competenze. In questo caso sì che sarebbe stato rispettato l’invocato principio della leale collaborazione tra le parti, il quale non può che trovare il suo fondamento nel principio dell’indipendenza e della sovranità dei rispettivi ordini (art. 7 Cost.).
Il tentativo di soluzione di una così delicata questione non è, a ben vedere, un mero esercizio mentale fine a se stesso, ma un ragionamento impostato al fine di vagliare la legittimità sostanziale degli atti emanati e delle misure di esecuzione adottate, cercando di scongiurare la nascita di un vero e proprio precedente. D’altra parte, l’importanza dell’argomento risulta attestata dai recenti episodi in cui le forze dell’ordine e della polizia locale, sulla base delle norme previste negli atti della cui legittimità si discute, hanno interrotto le Messe (sic), compiendo materialmente un’altra evidente ingerenza nell’ordinamento della Chiesa e nei diritti dei fedeli (un comportamento rispetto al quale, tra l’altro, ci si potrebbe chiedere se integri gli estremi di un atto d’irreligione qualificabile, secondo il Catechismo della Chiesa cattolica, Parte III, sez. II, cap. I, par. 2120, come sacrilegio).
In secondo luogo, nelle righe finali del mio intervento mi chiedevo se e in quale misura, nell’ordinamento della Chiesa, vi fosse il potere di sospendere del tutto le sante Messe in forma pubblica, impedendo radicalmente la partecipazione dei fedeli. In realtà, lungi dall’aver avanzato una risposta definitiva, non si poneva in dubbio né la possibilità dell’adozione di una dispensa al precetto universale (cosa, anzi, cui avevo fatto espresso riferimento), né si postulava «un’attenuazione della sacramentalità della Santa Messa», né si asseriva una mancanza d’attenzione al tema da parte della comunità scientifica di settore.
Ebbene, quanto al merito della risposta alla mia domanda, sia consentita un’ultima rapida considerazione. Nell’articolo è stato scritto che la dispensa di cui ai cann. 1245, 87, par. 1 e 90, par. 1 «non impedisce il rispetto generale della regola, ma limita il suo esercizio in casi particolari e per persone singole». È proprio questo il punto sul quale ci si interrogava, fermo il fatto che sembrerebbero esservi valide ragioni per ritenere che la misura sia a tutti gli effetti una dispensa in senso tecnico (e non una decisione adottata ai sensi del can. 223, par. 2). Tra queste giova indicare, a titolo esemplificativo, la lettera dei Decreti prot. n. 468/20 e prot. n. 469/20 adottati da S.E. il Cardinal Vicario della Diocesi di Roma, dove è chiaramente disposto che «i fedeli sono dispensati dall’obbligo di soddisfare al precetto festivo». In quest’ottica, sembra allora potersi dubitare che la limitazione al rispetto della regola sia stata unicamente disposta «in casi particolari» e «per singole persone», posto che la limitazione è stata generale e che i soli espressamente abilitati ad assistere alla Messa (comunque celebrata in forma privata) sono stati i soggetti individuati nella nota 27 marzo 2020 del Ministero dell’Interno (Dip. per le libertà civili e l’immigrazione; Dir. centrale degli affari dei culti).
A fronte di ciò, oltre alla già riferita inesistenza di un obbligo giuridico di fruire della dispensa, a me pare che l’impedimento al rispetto della regola generale sia proprio ciò che è avvenuto con la misura della sospensione delle sante Messe in forma pubblica, in quanto si è reso del tutto impossibile ai fedeli di seguirle realmente, anche a fronte di una loro impellente necessità spirituale (la quale può essere liberamente manifestata ai Pastori della Chiesa, ai sensi del can. 212, par. 2). Per tale ragione non si vede come si possa considerare questa misura come non lesiva della libertà del fedele di assistere alla s. Messa, ma come una misura che, più semplicemente, ne avrebbe definito le modalità d’esercizio (d’altronde, la definizione delle modalità implica l’esercizio). In effetti, delle due l’una: o l’attuale sospensione consente al fedele di andare a Messa, definendo con ciò le modalità d’esercizio di una libertà che resta in sé intatta (per esempio, regolando l’ingresso nelle Chiese o prevedendo distanze particolari tra i presenti), o la sospensione impedisce tout court questa possibilità, ledendo (non definendo) inevitabilmente quella libertà attraverso la totale interdizione del suo concreto esercizio. Ora, è chiaro che la sospensiva, così come fatta rispettare sino a oggi, vada nel secondo tra i due sensi appena indicati.
In sostanza, è per tali ragioni che sembra non potersi dire che siamo di fronte a una semplice limitazione ed è per questo che la misura adottata, quanto ai suoi effetti, rischia di trasformarsi sostanzialmente in una pena canonica (senza comunque esserlo formalmente), nella specie in un interdetto che impedirebbe di prendere parte al culto pubblico. In questo senso, per le medesime motivazioni, non pare essere dirimente neppure il richiamo fatto al can. 223, par. 2, in materia di diritti dei fedeli, in base al quale sarebbe stata adottata, in vista del bene comune ivi contemplato, una «decisione di opportunità che non lede la libertà del fedele ma […] ne definisce le modalità d’esercizio» (i termini non cambiano), soprattutto se si pensa al problema della qualificazione giuridica di tale decisione e al suo rapporto con le norme gerarchicamente sovraordinate.
In conclusione, senza essere un canonista, credo mi si possa concedere di continuare a nutrire qualche riserva sulla piena legittimità della sospensione delle Sante Messe in forma pubblica, restando senz’altro ferma la possibilità d’errore. Dopotutto, se è vero che non si smette mai d’imparare, quando un «operatore giuridico» può dire di avere davvero raggiunto «una adeguata formazione»?
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