Città del Vaticano , 24 February, 2019 / 9:59 AM
“Ci sono stati momenti in cui abbiamo considerato le vittime e i sopravvissuti come nemici, ma non li abbiamo amati, non li abbiamo benedetti. In questo senso, siamo stati i nostri peggiori nemici”. L’omelia dell’arcivescovo Mark Coleridge di Brisbane è una presa in carico di responsabilità, e una dichiarazione di intenti per il futuro, certi che il potere distrugge quando è separato dal servizio.
In attesa delle parole conclusive di Papa Francesco, dopo una liturgia penitenziale che si è risolta in una confessione collettiva delle proprie colpe, i presidenti di Conferenza Episcopale riuniti in Vaticano per il summit sulla “Protezione dei Minori nella Chiesa” ritornano nella Sala Regia. Il percorso è quello verso la Sistina, si passa dalla Scala Regia, e dalla Sala Regia, dedicata un tempo a ricevere i re, si arriva all’Aula delle Benedizioni, alla Cappella Sistina, alla Cappella Paolina, alla Sala Ducale. Ha le pareti ricoperte di affreschi e stucchi, e in particolare vi campeggia un affresco sulla battaglia di Lepanto, commissionata da San Pio V al Vasari.
A ragione, l’arcivescovo Coleridge nota che proprio quella sala è “un luogo nel quale si incontrano poteri terreni e celesti, a volte toccati da quelli infernali. In questa Sala Regia la Parola di Dio ci invita a contemplare il potere come lo abbiamo fatto noi in questi tre giorni passati insieme”.
L’omelia parte dalla prima lettura, da Davide che ha il potere di uccidere Saul dopo essere penetrato nell’accampamento del re senza che nessuno se ne accorga, ma non lo fa, perché il re è un consacrato. E come Davide – sottolinea l’arcivescovo Coleridge – i “pastori della Chiesa hanno ricevuto il dono del potere, ma il potere di servire, di creare, un potere che è con e per, ma non sopra”.
Ma il potere è “pericoloso”, può “distruggere quando è separato dal servizio, quando non è un modo per amare, quando diventa potere sopra”, può persino uccidere, e questo succede nell’abuso sessuale, là dove “i potenti mettono le mani sui consacrati di Dio, persino sui più deboli e sui più vulnerabili tra loro”, e si manifestano “non come uomini del cielo, ma come uomini della terra”, nell’abuso, ma anche nella sua copertura”.
Il presidente della Conferenza Episcopale Australiana sottolinea che le vittime non sono nemici, e quando sono state trascurate le loro testimonianze “siamo stati i nostri peggiori nemici”, e nel non ascoltare “non sempre abbiamo scelto la misericordia dell’uomo del cielo”, ma a volte “abbiamo preferito l’indifferenza dell’uomo della terra e il desiderio di tutelare la reputazione della Chiesa e anche la nostra”.
L’arcivescovo Coleridge afferma che ora “l’uomo della terra deve morire affinché possa nascere l’uomo del cielo”, e si tratta di operare una vera conversione per uscire dalla pura amministrazione, che “non arriva al cuore della crisi degli abusi”, e che “ci aiuterà a vedere che le ferite di coloro che sono stati abusati sono le nostre ferite, che il loro destino è il nostro, che non sono i nostri nemici ma ossa delle nostre ossa, carne della nostra carne (cfr. Gen, 2, 23). Loro sono noi e noi siamo loro”.
Scoprire “che le persone abusate non ruotano intorno alla Chiesa, ma che è la Chiesa che ruota intorno a loro”, è “la rivoluzione copernicana” da operare, perché solo così – continua l’arcivescovo australiano – “possiamo iniziare a vedere con gli occhi loro e a sentire con le loro orecchie” e “una volta fatto questo, il mondo e la Chiesa cominciano ad avere un altro aspetto”.
Solo da questa conversione può nascere “una nuova stagione di missione”, perché è proprio nelle vittime, negli “ultimi tra i fratelli e le sorelle, vittime e sopravvissuti, incontriamo Cristo crocifisso, l’indifeso dal quale sgorga il potere dell’Onnipotente, il debole attorno al quale la Chiesa ruoterà per sempre, l’indifeso le cui cicatrici splendono come il sole”.
Per l’arcivescovo Coleridge, le testimonianze dei sopravvissuti sono stati il Calvario dei vescovi, il pianto di Gesù nel buio da cui però nasce la speranza della luce di Pasqua, perché nel Vangelo “dalla paura nasce un’audacia apostolica, dal più profondo scoramento la gioia del Vangelo”.
Quale è allora la missione dei vescovi ora? L’arcivescovo Coleridge stila una sorta di manifesto.
“Faremo tutto quanto è in nostro potere per portare ai sopravvissuti agli abusi giustizia e guarigione; li ascolteremo, crederemo in loro e cammineremo con loro; faremo in modo che tutti coloro che hanno commesso abusi non siano mai più in grado di offendere; chiameremo a rendere conto chi ha nascosto gli abusi; renderemo più severi i procedimenti di selezione e di formazione dei leader della Chiesa; educheremo tutto il nostro popolo a ciò che richiede la tutela”.
E ancora: “Faremo ogni cosa in nostro potere per garantire che gli orrori del passato non si ripetano e che la Chiesa sia un posto sicuro per tutti, una madre amorevole in particolare per i giovani e per le persone vulnerabili; non agiremo da soli ma collaboreremo con tutte le persone coinvolte nel bene dei giovani e delle persone vulnerabili; continueremo ad approfondire la nostra conoscenza sugli abusi e sui suoi effetti, sul perché siano potuti accadere nella Chiesa e su cosa si debba fare per sradicarli”.
Nessuna illusione, ci vorrà tempo per questa rivoluzione, “ma noi non ne abbiamo per sempre e non possiamo permetterci di fallire”, e “se riusciremo a fare questo ed altro, non solo conosceremo la pace del Signore risorto, ma diventeremo la sua pace in una missione fino ai confini della terra. Eppure, potremo diventare la pace soltanto se prima saremo diventati il sacrificio”.
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