Città del Vaticano , 31 December, 2018 / 10:00 AM
Il testo che il Papa Emerito Benedetto XVI ha permesso che fosse pubblicato su Communio questa estate a proposito del De Judaeis come abbiamo visto ha suscitato un certo dibattito tra gli specialisti.
Ad alcuni Benedetto ha risposto personalmente come al Rabbino capo di Vienna. Ad altri ha risposto con un articolo sulla rivista Herder Korrespondenz del dicembre 2018.
La rivista ha pubblicato commenti di Thomas Söding (teologo cattolico, già membro della commissione teologica internazionale e ora del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione) e di Michael Böhnke (uno dei firmatari del documento Chiesa 2011: una partenza necessaria), “il quale - scrive il Papa emerito- conferma nuovamente la stroncatura, che in Germania regna sovrana, del mio contributo. Di fronte a questa situazione che vuole, per così dire, imporre un’opinione sola rispetto alle mie riflessioni, e cioè una reazione completamente negativa, mi sembra legittimo e ragionevole che io stesso riprenda di nuovo la parola, indipendentemente dal dialogo molto più positivo che ho potuto condurre con Rabbi Arie Folger, il rabbino capo di Vienna, e che prossimamente apparirà su “Communio”.”
Ecco allora i passaggi più significativi dell’articolo del Papa emerito sul numero di dicembre di Herder Korrespondenz e che fa parte di un dossier sull’argomento.
Il Papa spiega la genesi del testo e dice: “l’affermazione essenziale del testo di Böhnke è che avrei messo in discussione i pilastri del dialogo ebraico-cristiano. Questa affermazione è semplicemente sbagliata. Il mio articolo è invece scaturito dal fatto che padre Norbert Hofmann – responsabile per il dialogo ebraico-cristiano presso il Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani – mi ha invitato a prendere posizione sul piccolo documento “Questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche” (10 dicembre 2015).
Nel complesso, il documento mi è sembrato una sintesi riuscita di quel che la riflessione teologica aveva prodotto all’indomani del Concilio Vaticano II. Dando seguito al desiderio di padre Norbert Hofmann, in un primo momento ho annotato alcune osservazioni che intendevo trasmettergli. Ma nel corso del lavoro, poi, mi è sembrato più corretto collegare fra loro quelle mie osservazioni all’interno di un testo. Il contributo pubblicato da “Communio” è nato in questo modo. Conformemente alla sua genesi, esso non intende rappresentare una rottura con quanto sino a oggi elaborato, bensì portare avanti il dialogo in accordo con il magistero della Chiesa”.
Il primo chiarimento è quello sulla “teoria della sostituzione”.
Scrive Benedetto XVI: “Ero profondamente sorpreso dal non avere io stesso mai sentito parlare di tale teoria della sostituzione. Anche se non avevo mai trattato direttamente il tema cristianesimo-ebraismo, era sorprendente che non sapessi nulla della più importante teoria a riguardo. Per questo sono andato alla ricerca di essa e ho dovuto constatare che prima del Concilio una teoria del genere come tale esplicitamente non c’era.
Continuo a ritenere importante sapere come in seguito possa essere nata l’idea di una teoria della sostituzione che bisognava superare. In ogni caso, su questo punto essenziale, non ho rifiutato il mio accordo, ma ho soltanto constatato che una coerente “teoria della sostituzione” come tale non è mai esistita”.
Il Papa emerito passa poi a spiegare che “L’Antico Testamento è la Bibbia comune di ebrei e cristiani”.
La nuova interpretazione dell’Antico testamento dopo la resurrezione di Gesù non è stata accettata da tutti e si sono aggiunti gli scritti del primo secolo divenuti Nuovo Testamento.
Spiega Benedetto XVI: “I cristiani ora erano convinti che il rapporto fra le due “Bibbie” fosse tale che il Nuovo Testamento stabiliva in modo vincolante la corretta interpretazione dell’Antico. In questo modo le due comunità, che si appoggiavano sulla Bibbia degli ebrei quale loro base, erano definitivamente separate in due comunità (due “religioni”: ebraismo e cristianesimo).
In forza della comune base nell’Antico Testamento, il dialogo tra di esse è restato naturalmente un’intima necessità. Non si è mai neppure completamente interrotto, e tuttavia fu oscurato sempre più dal potere politico della cristianità, fino alla tentata distruzione dell’ebraismo da parte del regime nazionalsocialista. Così la Chiesa cattolica, nel Concilio Vaticano II, a seguito di tutte le sofferenze del popolo ebraico, ha cercato una nuova base per il dialogo, a oggi formulata al meglio nel documento della Commissione biblica del 24 maggio 2001 “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”. Questo documento oggi dovrebbe indicare la strada per il dialogo ebraico-cattolico, sia dal punto del metodo che da quello del merito.
Il mio contributo pubblicato su “Communio” segue questo orientamento. Di conseguenza, ho cercato di interpretare le grandi promesse a Israele allo stesso tempo come speranza della Chiesa, cercando di esporre sia quel che divide, sia quel che unisce. Nel farlo, ho potuto constatare con grande gioia come il nuovo lavoro dell’esegesi consenta su entrambi i lati avvicinamenti che fino ad oggi non si potevano neppure immaginare; e questo anche proprio riguardo a classiche questioni dirimenti, quali la figura del Messia e il problema del rapporto tra legge e libertà. Alla mia età non posso sperare di poter continuare a lavorare su questo, e tuttavia è per me di grande incoraggiamento vedere aprirsi così tante nuove possibilità”.
Nonostante l’età però il Papa emerito indica un cammino in prospettiva: “Il Vangelo di san Matteo si conclude con la missione ai discepoli di andare in tutto il mondo e fare discepoli tutti i popoli (Mt 28,19). Missione in tutti i popoli e culture è dunque il mandato che Cristo ha affidato ai suoi. Si tratta, nel compierlo, di fare conoscere agli uomini il “dio ignoto” (At 17,23). L’uomo ha il diritto di conoscere Dio perché solo chi conosce Dio può vivere nel modo giusto la propria umanità.
Per questo il mandato missionario è universale – con un’eccezione: una missione agli ebrei non era prevista e non era necessaria, semplicemente perché essi soli tra tutti i popoli conoscevano il “dio ignoto”. Quindi, per quanto riguarda Israele, non valeva e non vale la missione, ma il dialogo se Gesù di Nazaret sia “il Figlio di Dio, il Logos”, atteso – secondo le promesse fatte al suo stesso popolo – da Israele e, inconsapevolmente, da tutta l’umanità. Riprendere questo dialogo è il compito che ci impone il momento presente”.
La conclusione di Benedetto XVI poi è semplice e chiara: “Quel che Michael Böhnke ha scritto su “Herder Korrespondenz” sono sciocchezze grottesche e non hanno nulla a che vedere con quanto ho detto in merito. Per questo respingo il suo articolo come un’accusa assolutamente falsa. Benedetto XVI”.
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