In più di 800 pagine di sentenza, il Tribunale Vaticano non solo non è riuscito a chiudere oltre ogni ragionevole dubbio una vicenda spinosa che riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Ha, piuttosto, aperto un altro dibattito, che riguarda l’efficacia stessa di un Tribunale Vaticano in cui il Papa interviene con quattro rescritti ad un processo in corso per – è la spiegazione del promotore di Giustizia Alessandro Diddi – “riempire i vuoti normativi”. la sentenza ha anche creato nuove comprensioni giuridiche, che a volte sembrano confondere o mescolare diritto canonico, legge dello Stato della Città del Vaticano e giurisprudenza italiana, fino ad arrivare alla teorizzazione che ci possa essere peculato solo per il fatto di aver usato male i fondi, senza che ci sia un vantaggio personale ed ha, soprattutto, aperto la strada a chi, in realtà, vuole colpire l’indipendenza stessa della Santa Sede. Perché di fronte a questo processo e al modo in cui è stato svolto, a partire dalle indagini, il parere che colpisce di più è forse quello di un vaticanista esperto come John Allen, che arriva a sostenere che eventualmente il Papa dovrebbe rinunciare al Tribunale vaticano ed alle proprie prerogative di giudice supremo.
Da una parte, c’è un broker che è stato imputato in Vaticano (e condannato su alcuni capi di accusa) e che è deciso a difendere la sua reputazione. Dall’altra, la Santa Sede, che aveva dato a quello stesso broker in gestione delle quote immobiliari, e che poi ha deciso di darla ad un altro broker che però considera oggi in una combutta fraudolente per prendere dal Vaticano il massimo profitto possibile. Uno scenario a volte surreale, quello che ha portato l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, sul banco dei testimoni presso l’Alta Corte di Giustizia del Regno Unito.
È stato giusto processo, quello sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato in Vaticano? No, rispondono tre pareri, diversi per fattura, dimensioni e angolazioni, ma concordi nel denunciare le falle di un procedimento penale che si è concluso con un dispositivo di sentenza controverso. La sentenza – attesa per la fine dell’anno, ma non c’è un termine preciso – permetterà di comprendere meglio le motivazioni dei giudici, ma certo i tre pareri pubblicati sono una spada di Damocle sul sistema giudiziario vaticano, il segno che le questioni rimarranno aperte e le domande senza risposta. E allora, alla fine, ci si dovrà chiedere se la Santa Sede sarà in grado di sostenere il peso di una campagna mediatica e internazionale sulla aderenza del suo sistema giudiziario agli standard internazionali.
La Corte di Appello dello Stato di Città del Vaticano si è già vista recapitare le prime richieste di appello dopo la sentenza di primo grado del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Non poteva essere altrimenti. Non tanto perché, come ha detto il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone nell’udienza finale (la numero 86) del processo “nessuna sentenza accontenta tutti”. Piuttosto, è la sentenza stessa a lasciare dei buchi, dei coni d’ombra nelle ricostruzioni e anche nel castello delle accuse provate e non provate.
Il Cardinale Angelo Becciu è stato condannato a 5 anni e 6 mesi di reclusione, 8 mila euro di multa e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Una sentenza dura, che sicuramente sarà appellata dagli avvocati convinti della “totale innocenza del cardinale”, e che riguarda solo una parte dei reati contestati, e in buona parte riqualificati dal Tribunale vaticano.
L’ultimo colpo di scena è una lettera firmata dal Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, e indirizzata al Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, che ribadisce la volontà di portare avanti il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato e di punire eventuali comportamenti criminali. Il testo è irrituale, come è irrituale tutto il processo, che si avvia alla conclusione. Perché il 16 dicembre, dopo l’ultima, breve, controreplica della difesa (l’avvocato Filippo Dinacci, che non aveva potuto intervenire per COVID) i giudici del Tribunale vaticano si riuniranno in camera di consiglio e definiranno il dispositivo della sentenza.
Dopo due anni, la strada verso la sentenza del processo vaticano sulla gestione dei fondi per la Segreteria di Stato sembra ormai vedere la luce. Nella prossima settimana, dopo aver ascoltato tutti i difensori, il Promotore di Giustizia vaticano potrà replicare l’11 dicembre, e i difensori potranno contro-replicare al promotore di Giustizia il 12. Quindi, il presidente del Tribunale Pignatone stabilirà la data per la lettura del dispositivo – per la sentenza completa si dovrà aspettare un po’ – che non dovrebbe essere oltre il 16 dicembre.
La “mostrificazione” del Cardinale Angelo Becciu, attraverso una lettura di fatti che si rifà ad una “certezza morale”, ma non a prove. Il senso del dovere di monsignor Mauro Carlino, che “ha fatto il suo dovere con lealtà”. La gestione di Gianluigi Torzi. Le ultime tre udienze del processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana hanno portato nuovi dettagli e prospettive, gettando ulteriore luce su una vicenda che è stata presentata come “processo del secolo” e che invece, se le prove prodotte dalle difese verranno considerate dal tribunale, potrebbe rivelarsi più che altro una ricostruzione accusatoria che non ha fondamento nelle prove prodotte. E la prova, in un processo penale, è tutto.
Nella settimana che termina il 16 dicembre, non solo saranno finite tutte le arringhe difensive dei dieci imputati, ma avranno avuto luogo anche le repliche del promotore di Giustizia Alessandro Diddi (l’11) e le controrepliche dei difensori (il 12). E dunque sarà alla fine di quella settimana e all’inizio della successiva che il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone potrebbe consegnare la sentenza, che chiuderebbe così il processo di primo grado dedicato alla gestione dei fondi della Segreteria di Stato.
Dopo il cambio di narrativa sul processo riguardante la gestione dei fondi della Segreteria di Stato in Vaticano imposto dalle difese degli ex vertici dell’Autorità di Informazione Finanziaria, anche la difesa dell’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi contribuisce a delineare un quadro di verso da quello descritto nella requisitoria del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, rimasto ancorato alla sua prima ricostruzione dei fatti e noncurante dei rilievi avvenuti in sede dibattimentale.
Non è da sottovalutare il cambiamento di prospettiva che è avvenuto al processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato nell’udienza del 5 ottobre. Le difese di René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, hanno ricostruito i fatti, messo in contesto i documenti, superato le ricostruzioni dell’accusa senza mai distaccarsi da quelli che sono gli atti del processo, ma anzi rileggendoli e guardandoli da una prospettiva diversa. E questa rilettura stringente ha operato un profondo cambio di prospettiva, che ha un valore importante non solo per gli imputati, ma per comprendere quello che è in gioco per la Santa Sede con questo processo.
Quello che colpisce, delle arringhe di parti civili, non sono le richieste di risarcimento danni, forse esagerate ma in linea con quello che si pensava potesse essere il prezzo del palazzo di Londra su cui la Segreteria di Stato aveva investito. Colpisce, piuttosto, la retorica che porta addirittura ad utilizzare il catechismo della Chiesa Cattolica per definire una colpevolezza, la ricostruzione dei fatti con una serie di “certezze” che però vanno ancora provate, persino – come è successo nella requisitoria – l’utilizzo di narrazioni già smentite dai testimoni.
Un cardinale sotto processo. Un presunto scandalo immobiliare. Degli officiali infedeli. Veleni e attacchi personali. Ma anche una accusa tutta da decifrare. Un Papa presente sin dalle prime decisioni. Un organo di Stato che rifiuta inaspettatamente la richiesta dell’organo di governo dello Stato. Sono tutti temi che si incrociano nel processo sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato, che riprende il prossimo 27 settembre in Vaticano.
Ora spetterà al presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone tirare fuori il bandolo della matassa del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Dopo cinque giorni di requisitoria dai toni durissimi, che a volte hanno persino rasentato l’offesa personale nei confronti personali, con giudizi taglienti e netti, il promotore di Giustizia Alessandro Diddi ha fatto le sue richieste di condanna. Ha detto che si è tenuto sempre nel limite più basso di quello consentito dalla legge, tranne che in un caso: quello che riguarda il Cardinale Angelo Becciu. Perché Becciu, alla fine – è il ragionamento di Diddi – non ha mai mostrato segni di rincrescimento, anzi è voluto andare persino allo scontro frontale con la magistratura, negando ogni accusa, e “legandosi il cappio al collo da solo”. E così, per il Cardinale Becciu vengono chiesti 7 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione dei pubblici uffici, e gli viene anche comminata una multa di 10329 euro, mentre il presunto procurato danno alla Segreteria di Stato gli porta una richiesta di confisca di 14 milioni.
No, non è un processo contro la Segreteria di Stato. No, monsignor Alberto Perlasca non è un supertestimone. No, l’ufficio del Promotore di Giustizia non ragiona per teoremi, ma solo per prove. In tre giorni di requisitoria, a metà del guado che porterà poi alla richiesta delle condanne e traghetterà verso il lungo periodo dedicato a parti civili e arringhe difensive, il promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi si è dedicato più a decostruire che a costruire. A smentire ogni singolo dubbio, velato o meno, che ci fosse stato sulla sua ricostruzione di ciò che è successo. A concedere su questioni minime, ma senza scontare nulla su quelli che pensa che siano stati i fatti. “L’impianto accusatorio – dice – ha retto”.
No, non potranno essere usate né le testimonianze di Gianluigi Torzi né il suo memoriale nel delineare l’accusa su altri imputati riguardo la gestione dei fondi della Segreteria di Stato in quello che è stato il famoso affare del palazzo di Londra. La decisione del Tribunale vaticano arriva al termine della 61esima udienza, che si è tenuta il 13 giugno, e che ha riguardato soprattutto aspetti procedurali.
L’amarezza del Cardinale Angelo Becciu arriva in una dichiarazione spontanea che mette in luce come da una parte ci sia difficoltà, da parte della sua difesa, ad ottenere prove, non avendo il tribunale ammesso la richiesta di “sbloccare” gli omissis delle chat tra Genevieve Ciferri e lo stesso promotore di Giustizia Alessandro Diddi; dall’altro, la presenza di una trama che avrebbe portato, nelle parole del cardinale, “portato a strumentalizzare il Papa”.
Le ultime due udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana non hanno portato sostanziali novità. È stato interrogato il Cardinale Leonardo Sandri, per fatti che risalgono comunque al periodo in cui era sostituto della Segreteria di Stato vaticana, dal 2000 al 2007. È stato interrogato un funzionario di WRM Capinvest, la società di Raffaele Mincione, il broker che ha avuto in gestione il famoso palazzo di Londra. E c’è stato il ritorno di Roberto Lolato, il consulente del promotore di Giustizia vaticano che ha aiutato a raccogliere alcuni dati, e che è stato richiamato perché ci sono nuovi capi di imputazione che ha aiutato ad analizzare.
Ci sono nuovi casi di imputazione, e due altri cardinali chiamati a testimoniare, nel processo per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana. Le novità sono giunte dalle udienze numero 55 e 56, che si sono tenute 19 e 20 aprile, e che sono servite all’escussione di cinque testimoni, ma anche a rispondere a quella richiesta di aprire nuovi capi di accusa avanzata dal promotore di Giustizia Alessandro Diddi nelle ultime udienze. Di fronte alle difese che chiedevano la nullità, anche perché in alcuni casi i fatti contestati erano non ben determinati, il Tribunale ha invece risposto che sì, alcune accuse vanno meglio precisate, ma che comunque si inseriscono in un filone di maggiore chiarezza riguardo i reati contestati e anche il concorso dei reati, e che dunque la richiesta del Promotore di Giustizia è ammesso.
Il colpo di scena delle ultime udienze sul processo della gestione di fondi in Vaticano è la formulazione di nuovi capi di accusa per alcuni degli imputati. Capi di accusa che nascono a seguito degli interrogatori che si sono prodotti in aula, con una procedura che può sembrare forzata, ma che è consentita in Vaticano, e che aggiunge i capi di imputazione di corruzione ad Enrico Crasso, Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, e quelle di autoriciclaggio per Enrico Crasso e Fabrizio Tirabassi.