Il cammino dell’unità non è solo una questione teologica. Ne è convinto Miqayel Ahjapayan, vescovo apostolico di Gyumri. La sua cattedrale, dedicata alle Sette Piaghe, si affaccia su piazza Vartanants, dove Papa Francesco ha celebrato la Messa lo scorso 25 giugno. E proprio a Gyumri, nel periodo dell’impero sovietico, si sono visti i fronti di un cammino fianco a fianco che non è mai terminato. Anzi, si è rafforzato.
Quale è la sfida più grande per la Chiesa Apostolica? “Dobbiamo ricostruire una generazione”, risponde sicuro l’arcivescovo Khajag Barsamian, primate della Diocesi della Chiesa Armena di America. Impegnato da sempre nel dialogo ecumenico, figura di spicco della Chiesa apostolica armena, l’arcivescovo spera anche che la leadership di Papa Francesco lanci un segnalale al mondo, ed che la visita possa aiutare l’Armenia ad uscire da una situazione geopolitica difficile.
Tutto ruota intorno ad una parola: genocidio. Perché non c’è dubbio che milioni di armeni furono deportati, a più riprese, dal XIX secolo in poi, fino ai tragici fatti del 1915. C’è così poco dubbio che persino i turchi ne processarono e condannarono i responsabili, prima dell’arrivo della Turchia laica e moderna targata Kemal Ataturk. Tutto sta nel modo in cui definire quei “tragici fatti”. Come parlare della scomparsa di un milione e mezzo di persone. Per gli armeni non c’è dubbio: è genocidio. Per la comunità internazionale: dipende. Per i turchi, non fu genocidio, perché durante quei fatti non morirono solo gli armeni.