Oggi Gesù ci ricorda una verità, seppur scomoda: tutti siamo peccatori e per essere liberati dal nostro peccato abbiamo necessità di accogliere il perdono di Dio, che ci viene offerto da Cristo. Grazie a Lui ritroviamo la nostra dignità di figli di Dio.
I testi della Messa della solennità del Corpo e Sangue del Signore sono stati scritti da san Tommaso d’Aquino, uomo di grandissima cultura e di profonda fede. Lo spirito che lo ha guidato nella composizione delle preghiere e degli inni è stato quello di aiutare i fedeli, quindi anche noi, a non dubitare della presenza di Cristo nel sacramento dell’Eucarestia. Si tratta, infatti, di una presenza vera e reale, ma nascosta, velata, misteriosa. Infatti, confessare che Gesù è presente nell’Eucarestia significa riconoscere che nel segno del pane e del vino è presente lo stesso Figlio di Dio, nato da Maria vergine duemila anni fa a Betlemme. C’è dunque identità tra il corpo storico di Cristo ed il corpo eucaristico.
L’Anno liturgico ci fa celebrare gli eventi principali della vita di Cristo che sono la causa della nostra salvezza: l’incarnazione, la vita nascosta a Nazareth, i tre anni di vita pubblica, la passione, la morte, la resurrezione, l’ascensione e la venuta dello Spirito Santo. Con la solennità odierna la Chiesa ci invita a contemplare l’origine da cui tutto è scaturito: la Santissima Trinità. La Trinità ci parla della profondità del mistero di Dio che, nonostante la rivelazione di Cristo, l’uomo non è in grado di racchiudere nella propria mente, come se Dio fosse un suo concetto
La Pentecoste celebra la terza Persona della Santissima Trinità, lo Spirito Santo. Gesù, prima di lasciare questo mondo, cioè prima della sua morte, annuncia, con parole singolari, la venuta dello Spirito Santo: “E’ meglio per voi che io me ne vada” (Gv. 16.7). I discepoli nella dichiarazione del Maestro colgono solo l’aspetto della separazione, che suscita in loro un sentimento di tristezza. Possiamo ben immaginare le obiezioni degli apostoli: “Ma come! Tu sei venuto per salvarci, per essere la nostra guida; tu che ti sei dichiarato nostro amico ora vuoi andartene?”.
La Chiesa celebra oggi la solennità dell’Ascensione di Gesù al cielo. L’evangelista san Marco racconta l’evento con queste parole: Il Signore Gesù, dopo avere parlato con loro [gli apostoli], fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Con queste parole, Gesù ci svela che l’amore può sussistere solo se produce altro amore. Infatti, il Padre ama Gesù; Gesù, amato dal Padre può amare i suoi discepoli ed essi amati da Gesù sono resi capaci di amarsi gli uni gli altri. Possiamo, dunque, riconoscere che l’amore è come una catena che unisce le persone.
L’allegoria della vite e i tralci è una delle pagine più belle del Vangelo di Giovanni. Gesù racconta questa parabola per illustrare il tipo di relazione che siamo chiamati ad avere con Lui e le conseguenze che ne derivano. La relazione che il Signore vuole instaurare con noi è qualcosa di molto diverso da quella che si instaura, ad esempio, tra un maestro e i suoi alunni, tra un “sapiente” che educa ad una vita virtuosa i suoi seguaci. Infatti, nessuno dei grandi maestri dell’antichità, si chiami Socrate o Budda, ha mai detto: Rimanete in me ed io in voi.
Gesù, in questa quarta domenica di Pasqua, si presenta con queste parole: “Io sono il buon Pastore”. Questa presentazione che Cristo fa di se stesso è una delle più commoventi e suggestive. Non a caso in una delle prime raffigurazione - in un affresco nelle catacombe romane - Cristo viene raffigurato come un Pastore che porta sulle spalle una pecora. Al mercenario, cioè al pastore prezzolato, le pecore non interessano poiché non sono sue e così quando si avvicina il lupo le abbandona al loro drammatico destino. Il Signore, utilizzando questa immagine, ci svela che il rapporto tra Lui e i suoi discepoli è di appartenenza.
Al centro dell’episodio del vangelo di questa domenica seconda Domenica di Pasqua sta la persona di Gesù. Ci troviamo nel Cenacolo, dove gli apostoli vivono reclusi per timore dei capi del popolo ebraico. Improvvisamente il Signore si rese presente in mezzo a loro. Egli è risorto dai morti e poiché è vivo può venire e fermarsi in mezzo ai suoi amici. Chi si manifesta non è un fantasma, ma lo stesso Gesù che due giorni prima avevano visto morire con atroci sofferenze sulla croce. E perché i discepoli non avessero alcun dubbio al riguardo, Egli "mostrò loro le mani e il costato". Le mani che erano state confitte sulla croce ed il costato che era stato aperto dalla lancia del soldato
Nella Veglia Pasquale - la “Veglia delle veglie”,- meditiamo le meraviglie operate da Dio nel corso dei secoli in favore del suo popolo e nello stesso tempo siamo pervasi da un senso di gioiosa gratitudine per la resurrezione da morte di Cristo. Il testo di Vangelo che la Chiesa ci propone è quello di san Marco. Tra i tanti insegnamenti in esso presenti ne raccogliamo uno che ci aiuti a fare nostra la Pasqua di Cristo. In questo capitolo (16,1-8) ritroviamo di nuovo la presenza di tre donne, Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome, che avevano seguito e servito Gesù fin dalla Galilea. Nel momento del pericolo i discepoli sconvolti sono fuggiti, uno ha tradito (Giuda) e un altro ha rinnegato Gesù (Pietro). Le donne, invece, sono state presenti alla morte di Gesù e hanno assistito alla sua sepoltura. Queste discepole fedeli, coraggiose, amanti ora stanno recandosi al sepolcro.
Con la domenica delle Palme inizia la settimana più santa dell’anno, perchè riviviamo il mistero della nostra salvezza. La Chiesa ci fa meditare il racconto della Passione di Gesù secondo il Vangelo di san Marco. Ci soffermiamo al momento della crocifissione. L’evangelista non fa commenti, racconta i fatti nella loro cruda realtà. Le ore in cui Gesù rimane appeso alla croce trascorrono tra gli insulti e gli scherni. Tutto questo odio e questa violenza che si abbattono conto di Lui non devono scandalizzarci. Tutto era già stato predetto. San Marco divide i denigratori di Gesù in tre gruppi. Innanzitutto la folla che si unisce al coro di coloro che lo beffeggiano e lo deridono. Poi i capi del popolo ebraico i quali si godono la vittoria e, osservando dai piedi del Calvario l’agonia del crocifisso, lo provocano: “scendi dalla croce e crederemo in te”. Ma Gesù non scende dalla croce, Dio non lo salva, e quindi, secondo il loro modo di ragionare, Gesù non è Figlio di Dio. Non capiscono che Gesù non scende dalla croce non perchè gli è impossibile farlo, ma per amore degli uomini. Se Dio vuole mostrare la sua potenza, allora la croce è un fallimento. Se Dio vuole mostrare il suo amore, allora la croce è un trionfo, è una scuola meravigliosa di vita. A questi due gruppi di schernitori si aggiungono anche quelli che erano crocifissi con Lui. Gesù non trova un minimo di comprensione e di compassione nemmeno in coloro che dividono con Lui gli atroci dolori della crocifissione.
Manca poco più di una settimana alla morte di Gesù e alcuni simpatizzanti ebrei di origine greca che si trovano a Gerusalemme rivolgono a Filippo e ad Andrea la richiesta di potere vedere Gesù. Questo gruppo di greci rappresentano i popoli della terra che saranno attirati a Cristo dalla fecondità del suo sacrificio. Gesù stesso, infatti, affermerà che una volta innalzato sul patibolo della croce, attirerà tutti a sè, perché l’uomo non rimane insensibile “a tanto amore” di Dio nei confronti dell’umanità.
Il brano di vangelo di questa domenica di Quaresima appartiene al dialogo tra Gesù e Nicodemo che ci viene riportato nel capitolo 3 del Vangelo di Giovanni. In esso troviamo questa rivelazione: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Siamo chiamati, dunque, a confrontarci con l’amore di Dio per l’umanità, per ognuno di noi.
Gesù si reca al tempio di Gerusalemme e trova che è stato trasformato in un “luogo di mercato” e “perde la pazienza”. La ragione profonda di questa ira che si accende nel cuore di Cristo va ricercata nel fatto che Egli riconosce nel tempio la casa del “Padre suo”. Chiamando Dio suo Padre rivela, ancora una volta, la sua identità di Figlio di Dio. Già all’età di dodici anni egli aveva dichiarato a Giuseppe e Maria: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma nessuno, allora, aveva compreso il significato di quelle parole (Lc 2, 49-50).
Il Vangelo di questa seconda domenica di Quaresima ci presenta l’episodio della Trasfigurazione di Cristo. Pochi giorni prima Gesù aveva annunciato ai suoi discepoli la sua passione e morte a Gerusalemme. Gli apostoli erano quindi rattristati e scandalizzati perché l’idea che essi avevano del Messia andava in tutt’altra direzione. Attendevano, infatti, un Messia glorioso, potente, vincitore non sconfitto, disprezzato e ucciso dai suoi nemici.
Mercoledì scorso, con l’austero rito della Ceneri, abbiamo iniziato il nostro percorso di Quaresima. Questo tempo santo ha lo scopo di preparaci alla solenne festa della nostra redenzione, la morte e resurrezione di Cristo.
Il Vangelo di questa domenica ci presenta la guarigione di un lebbroso. La lebbra era una malattia terribile che condannava alla solitudine, ma quel che è peggio era percepita come una punizione di Dio. Gesù di fronte al lebbroso è “mosso a compassione” e lo tocca. Nella compassione e nel gesto di Cristo verso il lebbroso noi vediamo il porsi di Dio nei confronti dell’umanità da Lui separata a causa del peccato, la vera lebbra, che distrugge la vita delle persone. Tutti, dunque, siamo “lebbrosi” e bisognosi di essere salvati. E’ per questa ragione che il Figlio di Dio si è fatto carne. E’ venuto tra noi per porre le infinite ricchezze della sua divinità al nostro servizio e così darci la vita.
Il Vangelo di questa domenica continua il racconto di come Gesù viveva le sue giornate a Cafarnao. Egli trascorreva il suo tempo alternando la predicazione del Regno di Dio con la guarigione dei malati e degli indemoniati. Il Signore si trovava, dunque, a confrontarsi con tutte quelle situazioni che fanno soffrire l’uomo: ogni sorta di malattia e, in più, quel male oscuro, il più terribile di tutti, che è la possessione diabolica.
Il Vangelo di questa domenica ci presenta la guarigione di un lebbroso. La lebbra era una malattia terribile che condannava alla solitudine, ma quel che è peggio era percepita come una punizione di Dio. Gesù di fronte al lebbroso è “mosso a compassione” e lo tocca. Nella compassione e nel gesto di Cristo verso il lebbroso noi vediamo il porsi di Dio nei confronti dell’umanità da Lui separata a causa del peccato, la vera lebbra, che distrugge la vita delle persone. Tutti, dunque, siamo “lebbrosi” e bisognosi di essere salvati. E’ per questa ragione che il Figlio di Dio si è fatto carne. E’ venuto tra noi per porre le infinite ricchezze della sua divinità al nostro servizio e così darci la vita.
Cristo inizia la sua missione nella sinagoga di Cafarnao, dove commenta un testo delle Sacre Scritture. Il Suo insegnamento suscita l’ammirazione degli ascoltatori, i quali si sentono scossi, colpiti, interpellati dalle sue parole. Ma non solo! Il suo insegnamento, così nuovo, ma nello stesso tempo così vero, mette in crisi le false sicurezze e le mediocrità degli ascoltatori, facendo emergere il desiderio di confrontarsi con Gesù. In effetti la gente si interroga circa la sua identità; si domanda da chi gli viene l’autorità con cui parla. L’attenzione, quindi, non è più rivolta al contenuto della sua predicazione, ma alla Sua persona.