La liturgia di questa domenica ci porta a riflettere sulla vita e la morte. La prima lettura ci rivela che la morte non rientrava nel piano iniziale del Creatore. Quando Dio ha creato l’uomo, lo ha voluto libero ed incorruttibile, ma il diavolo, invidioso della felicità dell’uomo, lo ha ingannato e lo ha portato a scegliere il peccato, e così la morte è entrata nel mondo. La morte, dunque, è la conseguenza del peccato.
La Parola di Dio della XII° domenica del tempo ordinario ci dice che di fronte alle difficoltà che possiamo incontrare sia negli eventi naturali che della storia Dio è presente nel mondo, ma questa sua presenza rimane un mistero di amore gratuito, che deve essere accolto nella fede e nella meraviglia.
Oggi Gesù ci parla del Regno di Dio e di come esso di sviluppi nel mondo. Si serve di due eventi che tutti possiamo osservare nella vita di ogni giorno: la storia del seme che cresce da solo e la storia del piccolo seme di senape che diventa un albero
La solennità del “Corpus Domini” ravviva nella Chiesa la fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucarestia, dove il pane e il vino si trasformano nel Corpo e nel Sangue del Signore. Il cambiamento del pane nel Corpo e del vino nel Sangue di Cristo è una conversione “mirabile e singolare” che fonda l’incrollabile certezza della sua verità sulle parole di Gesù nell’Ultima Cena - “Questo è il mio corpo”; “Questo è il calice del mio sangue”- e sull’azione potente del suo Spirito
L’Anno liturgico ci fa celebrare gli eventi della nostra salvezza: l’incarnazione, la passione, la morte, la resurrezione, l’ascensione di Cristo e la venuta dello Spirito Santo. Con la solennità odierna la Chiesa ci invita a contemplare il punto di partenza da cui tutto è scaturito: la Santissima Trinità. La Trinità ci parla della profondità del mistero di Dio, che, in parte, rimane inaccessibile anche dopo che Cristo ce ne ha parlato.
La Pentecoste, che oggi celebriamo, è la festa dello Spirito Santo, la terza persona della Santissima Trinità. Gesù, prima di lasciare questo mondo, cioè prima della sua morte, annuncia, con un’affermazione singolare, la venuta dello Spirito: E’ meglio per voi che io me ne vada (Gv. 16.7). I discepoli nelle parole del Maestro colgono solo l’aspetto della separazione, che suscita in loro un sentimento di tristezza. Possiamo ben immaginare le obiezioni degli apostoli: “Ma come! Tu sei venuto per salvarci, per essere la nostra guida, tu che ci hai chiamati tuoi amici ora vuoi andartene?”.
La Chiesa celebra oggi la solennità dell’Ascensione di Gesù al cielo. L’evangelista san Marco racconta l’evento con queste parole: Il Signore Gesù, dopo avere parlato con loro [gli apostoli], fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. E’ Gesù che parla. La forza di questa affermazione è data dalla parola “come”. Non si tratta di un “come” comparativo, ma fondativo. Gesù, cioè, radica l’amore che nutre per i discepoli sull’amore che il Padre ha per Lui. In altre parole, Egli afferma che l’amore del Padre è all’origine, è la condizione, è la possibilità del Suo amore per gli apostoli. Da questa rivelazione sgorga una conseguenza importantissima: il Figlio ama noi non perché trovi in noi qualità amabili, ma perché Lui per primo è amato dal Padre.
Il testo dell’allegoria della vite e i tralci, una delle pagine più belle del Vangelo di Giovanni, è da leggersi più volte con attenzione e amore. Gesù, con questa allegoria, si propone di illustrare a quali profondità può giungere l’unione del discepolo Lui e le conseguenze che ne derivano. La relazione che il Signore propone è un’esperienza molto diversa da quella che si instaura tra un maestro e i suoi alunni o tra un “sapiente” che educa i suoi adepti ad una vita virtuosa. Infatti, nessuno dei grandi maestri dell’antichità - Socrate, Budda – ha mai detto: Rimanete in me ed io in voi.
Gesù, in questa quarta domenica di Pasqua, si presenta con queste parole: “Io sono il buon Pastore”. Questa presentazione che Cristo fa di se stesso è una delle più commoventi e suggestive. Non a caso in una delle prime raffigurazione - in un affresco nelle catacombe romane - Cristo viene rappresentato come un Pastore che porta sulle spalle una pecora. Il Signore, utilizzando questa immagine, ci svela che il rapporto tra Lui e i suoi discepoli è di appartenenza. Al mercenario, cioè al pastore prezzolato, le pecore non interessano poiché non sono sue e così quando si avvicina il lupo le abbandona al loro drammatico destino. Il pastore, invece, non si comporta così.
I due discepoli di Emmaus, mentre ritornano alle loro case tristi e delusi in seguito alla morte e sepoltura di Cristo, vivono un’esperienza inaspettata che fa rinascere la speranza. Cristo risorto si affianca loro e si fa riconoscere mentre spezza il pane. Ripieni di gioia fanno ritorno a Gerusalemme e annunciano agli apostoli, riuniti nel Cenacolo, la resurrezione di Cristo. A confermare la testimonianza dei due, improvvisamente, in mezzo a loro appare Gesù stesso.
Il brano di Vangelo di questa domenica ci racconta un’apparizione di Cristo risorto nel Cenacolo. L’aria che si respira all’interno della comunità dei discepoli è la paura, conseguenza della loro mancanza di fede. Si sentono dei falliti, degli sconfitti perché hanno dato credibilità ad una persona, Gesù di Nazareth, che è stato violentemente ucciso ed inoltre sanno che i capi del popolo li stanno cercando per metterli a morte. Si trovano, dunque, in una situazione spirituale e morale di ripiegamento in loro stessi, che ha portato la speranza a spegnersi nei loro cuori.
Si recò al sepolcro di buon mattino, quando era ancore buio. Cosa va a fare Maria Maddalena al sepolcro? Mentre nei vangeli Sinottici le donne vanno per completare la sepoltura con aromi (Lc 24,1) nel Vangelo di san Giovanni Maria va al sepolcro senza un obiettivo preciso, essendo la sepoltura già stata compiuta da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo. Dunque, l’unica ragione che la spinge ad andare alla tomba è lo slancio del suo cuore. Maria sa che Gesù è morto e quindi è ben consapevole che non potrà più incontrarlo fisicamente, tuttavia sente una grande nostalgia di Lui e, dunque, si reca nell’unico luogo dove può stare in qualche modo vicina a colui che ha perso.
Con questa domenica iniziamo la settimana più santa dell’anno. In essa la Chiesa celebra i misteri centrali della fede: la passione, la morte, la sepoltura e la resurrezione di Cristo. Con questi eventi Gesù conclude la Sua esistenza terrena e prende avvio il tempo della Chiesa.
Il Vangelo di questa quinta domenica di Quaresima ci propone una meditazione sul significato e l’importanza della Croce di Cristo. Ci troviamo ad appena una settimana dalla morte di Cristo e alcuni simpatizzanti ebrei di origine greca che si trovano a Gerusalemme rivolgono a Filippo e Andrea la richiesta di potere vedere Gesù. Questo gruppo di greci, che si erano avvicinati al Dio di Israele, rappresentano i popoli della terra che saranno attirati a Cristo dalla fecondità del suo sacrificio. Gesù stesso, infatti, affermerà che una volta innalzato sul patibolo della croce, attirerà tutti a sè, perché l’uomo non rimane insensibile “a tanto amore” di Dio nei confronti dell’umanità.
Il brano di Vangelo di questa domenica di Quaresima appartiene al dialogo tra Gesù e Nicodemo che ci viene riportato nel capitolo 3 del Vangelo di Giovanni. In esso troviamo questa rivelazione: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Siamo chiamati, dunque, a confrontarci con l’amore di Dio per l’umanità, per ognuno di noi.
Gesù si reca al tempio di Gerusalemme e trova che è stato trasformato in un “luogo di mercato” e “perde la pazienza”. La ragione profonda di questa ira che si accende nel cuore di Cristo va ricercata nel fatto che Egli riconosce nel tempio la casa del “Padre suo”. Chiamando Dio suo Padre rivela, ancora una volta, la sua identità di Figlio di Dio. Già all’età di dodici anni egli aveva dichiarato a Giuseppe e Maria: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma nessuno, allora, aveva compreso il significato di quelle parole (Lc 2, 49-50).
Il Vangelo di questa seconda domenica di Quaresima ci presenta l’episodio della Trasfigurazione di Cristo. Pochi giorni prima Gesù aveva annunciato ai suoi discepoli la sua passione e morte a Gerusalemme. Gli apostoli erano quindi rattristati e scandalizzati perché l’idea che essi avevano del Messia andava in tutt’altra direzione. Attendevano un Messia glorioso, potente, vincitore non sconfitto, disprezzato e ucciso dai suoi nemici.
La Quaresima è tempo di preparazione alla solenne festa di Pasqua Perché questa preparazione possa portare frutti la Chiesa ci chiede di entrare per quaranta giorni con Gesù nel deserto per imparare ad amare le nostre anime più dei nostri cuori. Questo significa che in questo tempo siamo invitati a prenderci cura della nostra salvezza eterna, che è il fine per il quale siamo al mondo.
La lebbra nel mondo antico era considerata una malattia terribile che condannava alla solitudine, ma quel che è peggio era percepita come una punizione di Dio. Gesù di fronte al lebbroso è “mosso a compassione” e lo tocca. Nella compassione e nel gesto di Cristo verso il lebbroso noi vediamo il porsi di Dio nei confronti dell’umanità da Lui separata a causa del peccato, la vera lebbra, che distrugge la vita delle persone. Tutti, dunque, siamo lebbrosi e bisognosi di essere salvati. E’ per questa ragione che il Figlio di Dio si è fatto carne. E’ venuto tra noi per porre le infinite ricchezze della sua divinità al nostro servizio e così darci la vita.