Le reliquie della famiglia Ulma, barbaramente uccisa dai nazisti nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1944, sono state poste su un altare laterale della chiesa di Santa Dorotea a Markowa. Ma la famiglia, beatificata il 10 settembre, era già santa secondo il parroco che per primo ne divulgò la storia, Stanislaw Leja. Fu lui a fare aprire la causa di beatificazione nel 2003, e fu lui a volere la loro immagine in un formello del portone di bronzo installato nella chiesa, a fianco a quello di un altro santo polacco.
Il matrimonio come sacramento che unisce tutta la famiglia, anche nel martirio. Un bambino che vede la luce forse per un solo secondo (non lo sappiamo) e che per questo riceve il Battesimo del sangue ed è oggi un beato senza nome. Una famiglia martire perché ha vissuto l’esperienza del Buon Samaritano. Gli Ulma, Jozef, Wiktoria e i loro figli Stanisława di 8 anni, Barbara di 7 anni, Władysław di 6, Franciszek di 4, Antoni di 3, Maria di 2, e il bimbo senza nome che vedeva la luce forse nel momento del martirio della madre, sono beati.
Perché la famiglia Ulma è una famiglia martire? Perché “ha difeso la radice da cui Cristo è nato”. E questa radice è la custodia di due famiglie ebree, consapevoli che la pena per l’aver nascosto quelle persone, in quella zona della Polonia, era solo la morte. Uccisi in odio alla fede, dunque, anche se nessuno ha chiesto loro di abiurare. Uccisi in odio alla fede perché hanno dimostrato di essere davvero cristiani, come dimostrava la parabola del Buon Samaritano cerchiata in rosso nella loro consumata Bibbia casalinga, accompagnata da una parola: Sì.