Sono statti più di centomila a dover lasciare tutto. Casa, lavoro e patria. Quella per cui hanno lottato fino all'ultimo: il Nagorno Karabakh. Quella enclave cristiana nello stato dell' Azerbaijan islamico.
Da quando il Nagorno Karabakh è stato assegnato alla gestione dell’Azerbaijan, musulmano, negli Anni Venti del secolo scorso, gli studiosi hanno dettagliato quello che hanno ritenuto essere una sorta di “genocidio culturale”, ovvero la scomparsa dei “khachkar” (le tipiche croci armene), persino di chiese ed edifici religiosi della antica popolazione cristiana. Quando negli Anni Novanta del secolo scorso l’etnia armena ha preso il controllo della regione proclamandola indipendente (ma lo Stato non è mai stato riconosciuto dall’Armenia stessa) si è verificato, secondo gli azerbaijani, l’opposto, ovvero che l’eredità musulmana della regione è stata estirpata. Ora, però, dopo la guerra del 2020 e la cosiddetta “operazione antiterrorismo” di settembre 2023, il Nagorno Karabakh è sotto controllo azerbaijano. Centinaia di migliaia di armeni hanno lasciato le loro case, i loro terreni, e la custodia dei luoghi santi. L’allarme per la perdita del patrimonio cristiano è risuonato di nuovo nella regione.
Quello che sta succedendo agli armeni del Nagorno-Karabakh è un fatto che desta preoccupazione e riporta a drammi del secolo scorso.
Nel Caucaso meridionale, dal 27 settembre 2020, gli armeni vivono un calvario che quasi ma non tutti dimenticano. Un popolo cristiano già vittima di un genocidio soffocato da supposte "ragioni politiche".
Nonostante la Corte Internazionale dell’Aja lo scorso 21 dicembre abbia chiesto di prevenire e punire atti di profanazione e vandalismo contro il patrimonio culturale armeno in Nagorno Karabakh, questo patrimonio continua ad essere a rischio. E così il 10 marzo, a un anno e quattro mesi dal cessate il fuoco, il Parlamento Europeo si è riunito e ha discusso una risoluzione che condanna l’Azerbaijan per quello che alcuni hanno chiamato un “genocidio culturale”.