Curiosamente, questo ottimismo che sentivo spesso tra gli ambasciatori occidentali contrastava con il parere dei vescovi locali, un parere molto più pacato. I fatti attuali hanno dato ragione ai vescovi.
Ma in cosa consisteva questo “ottimismo ingenuo”?
Si pensava, per esempio, fosse facile unire due grandi gruppi militari del paese, ovvero le Forze Armate e le Forze di Supporto Rapido, in un unico esercito al servizio del popolo e della democrazia. Ma questo ottimismo è stato sepolto dalla cruda realtà. La guerra scoppiata tra questi due gruppi rende chiaro che non è possibile che un Paese abbia due eserciti e due leader militari. Il detto popolare dice che due galli non possono stare in pace nello stesso pollaio. Prima o poi scoppia una guerra tra loro.
Quale è stata la posizione della Santa Sede?
Dall’inizio del periodo di transizione verso la democrazia in Sudan, la Santa Sede ha appoggiato i diversi processi di dialogo e di pace che si sono aperti nel Paese in questi ultimi anni. Gli organismi internazionali hanno capito che la missione che dovevano svolgere era una missione di mediazione con lo scopo di facilitare il dialogo tra tutti i sudanesi – partiti politici, gruppi ribelli, società civile, gruppi militari… Si trattava di un ruolo di facilitazione, e non un ruolo di guida, che negli ultimi tempi è stato svolto principalmente da un gruppo tripartito che coinvolgeva le Nazioni Unite, l’Unione Africana e un gruppo di Paesi del Corno d’Africa.
E ora quale è la situazione?
Una volta scoppiata la guerra, tutto questo processo di facilitazione è purtroppo fallito, almeno per ora. Attualmente, ci sono diversi Paesi – in modo particolare gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e alcuni organismi internazionali – impegnati per un cessate il fuoco e l’apertura di negoziati di pace per poter arrivare presto alla fine del conflitto. Purtroppo, come vediamo, i risultati di questi tentativi non sono per ora soddisfacenti, e la guerra continua con grande drammaticità.
Dunque, cosa può fare ora la Santa Sede?
La Santa Sede segue da vicino tutti questi tentativi di pace, e li appoggia. Ultimamente, sembra che all’interno della popolazione civile del Sudan stiano nascendo, in modo embrionale, diverse iniziative per far sentire la voce della maggioranza civile del Paese in questo conflitto armato. Queste iniziative civiche stanno cercando di organizzarsi affinché possano partecipare alle eventuali trattative di pace e alle conversazioni sul futuro del Paese.
Come valuta lei queste iniziative?
A me sembra che per raggiungere la desiderata pace definitiva e duratura in Sudan non basti sentire solo i due generali in conflitto. Non si può ridurre tutto al conflitto tra due uomini e due gruppi armati per una pace duratura e stabile. Bisogna sentire e bisogna contare soprattutto sulla maggioranza del Paese, la maggioranza della popolazione civile che desidera la pace e che cerca disperatamente di superare il conflitto attuale per un futuro migliore.
Quale è la situazione dei cristiani in Sudan?
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Come è noto, il Sudan è un Paese in maggioranza musulmano con una presenza minoritaria di cristiani. I fedeli cattolici in tutto il Paese si aggirano intorno al milione, e la maggior parte di loro sono persone molto povere. Molti di loro sono rifugiati sudanesi che occupano gli strati più bassi della società. Perciò, la presenza politica, sociale e culturale dei nostri cattolici in Sudan è poco rilevante. Tuttavia, la Chiesa cattolica, sin dall’arrivo dei primi missionari comboniani, svolge un importantissimo, e direi anche prezioso, lavoro di educazione. Alcuni tra i licei e le scuole più prestigiose del Paese sono gestiti dalla Chiesa, e lì l’educazione non è indirizzata solo ai cattolici, ma a tutti. Non solo il livello accademico è alto, ma vengono diffusi soprattutto i valori della fraternità, del rispetto e della tolleranza, contribuendo positivamente affinché l’educazione delle nuove generazioni avvenga in un ambiente molto più tollerante, aperto moderno.
Come la Santa Sede accompagna questo movimento?
Da tempo la Santa Sede cerca di aiutare affinché la libertà religiosa riconosciuta dalla Costituzione sudanese non resti soltanto una libertà di culto, ma sia vera libertà religiosa per la Chiesa cattolica e per tutte le altre minoranze religiose presenti in Sudan. Noi ci adoperiamo affinché questa libertà religiosa che lo Stato riconosce si traduca anche in fatti concreti, come per esempio il riconoscimento della personalità giuridica della Chiesa, che permetterebbe alla Chiesa e alle altre confessioni di vivere in modo normale il loro servizio religioso, ma anche assistenziale alla popolazione sudanese.
Quello che si vive oggi in Sudan è anche un conflitto religioso?
Il grave conflitto militare che vive oggi drammaticamente il Sudan non è una guerra religiosa, per il momento nemmeno una guerra civile. Si tratta di un conflitto tra due gruppi militari potenti, e nel mezzo si trova la popolazione civile che ne soffre drammaticamente le conseguenze. Vero è che sono state saccheggiate alcune chiese, e fra queste anche la cattedrale cattolica di Khartoum, ma le chiese non sono l’obiettivo degli attacchi. Piuttosto, il saccheggio si estende in tutte le azioni del conflitto, tanto che sono state oggetto di saccheggio anche ambasciate, inclusa la nunziatura, università e negozi, moschee, residenze private. Non è una una questione religiosa, non è una guerra religiosa.
A che punto è il conflitto oggi?