Veniva da una ricca famiglia borghese, aveva studiato arte, si era praticamente convertito e aveva portato in ogni attività il fuoco della sua conversione. don Lorenzo fu nominato priore di Barbiana, una piccola parrocchia di montagna. Sacerdote dal 1947, fu destinato a a Barbiana l’7 dicembre 1954, e dopo pochi giorni cominciò a radunare i giovani della nuova parrocchia in canonica con una scuola popolare simile a quella di San Donato. Il pomeriggio faceva invece doposcuola a in canonica ai ragazzi della scuola elementare statale.
Nel 1956 rinunciò alla scuola serale per i giovani del popolo e organizzò per i primi sei ragazzi che avevano finito le elementari una scuola di avviamento industriale.
Nel maggio del 1958 dette alle stampe Esperienze pastorali iniziato otto anni prima a San Donato. Ma il libro fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio. Il suo impegno culturale non si fermò. Nel 1964 scrisse una lettera a tutti i sacerdoti della Diocesi di Firenze a seguito della rimozione da parte del Cardinale Florit del Rettore del Seminario Mons. Bonanni. Nel febbraio del 1965 scrisse una lettera aperta ad un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”. La lettera fu incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato. Il tema dell’obiezione di coscienza è fondamentale ancora oggi, specialmente perché viene sempre più negato.
Malato, don Milani non partecipò al processo, ma inviò una autodifesa. Nel luglio 1966 insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana iniziò la stesura di Lettera a una professoressa.
Era un rivoluzionario nel senso evangelico del termine, ma anche profondamente obbediente alla Chiesa. Tanto che scrisse - e Papa Francesco ha citato questo scritto nel suo videomessaggio: “Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”.
Sono molti gli elementi che accomunano don Milani a don Primo Mazzolari. Così simile, don Mazzolari, nell’essere percepito una persona di rottura che quando arrivò, nel 2015, il nulla osta della Congregazione della Causa dei Santi per l’avvio della causa di Beatificazione di Don Primo Mazzolari, si parlò di un cambiamento di un’epoca. Ora, Papa Francesco andrà personalmente a rendere omaggio sulla tomba di don Primo.
Se la grandezza di don Mazzolari era stata riconosciuta già da Giovanni XXIII (che lo ricevette in Vaticano poco prima della morte, definendolo “la tromba dello Spirito Santo in Val Padana) e da Paolo VI, è solo nel 2013 che il vescovo di Cremona aveva avanzato la richiesta alla Congregazione delle Cause dei Santi per l’autorizzazione di aprire la fase diocesana della causa di beatificazione. La richiesta aveva l’approvazione unanime dell’episcopato lombardo, e fu accolta, appunto, nel 2015. Postulatore della causa è don Bruno Bignami, presidente della Fondazione Mazzolari di Bozzolo e autore di numerosi studi e pubblicazioni su don Primo.
Chi era don Primo Mazzolari? Nato nel 1890 a Santa Maria del Boschetto, una piccola frazione di cremona, entrò in seminario nel 1902. C’è chi lo ha definito un “prete dell’argine”, perché cresciuto agli argini del Po e anche agli argini della Chiesa. Chi lo ha descritto come il pieno modello di “prete sociale” delineato dalla Rerum Novarum di Leone XIII. Sin dagli studi, lui delinea la sua visione del mondo: il patriottismo di stampo risorgimentale, l’apertura verso la modernità, la fiducia nella democrazia. Sacerdote del 1912, fu interventista nella Prima Guerra Mondiale, e poi antifascista al punto di rifiutarsi di cantare il te Deum dopo il fallito attentato a Mussolini ad opera di Tito Zaniboni nel 1925, e poi attivo nella Resistenza, tanto da essere riconosciuto come “partigiano”.
Nel 1949, fondò la rivista quindicinale Adesso, di cui era direttore, che fu chiuso dell’ex Sant’Uffizio nel 1951, anno in cui lo stesso Sant’Uffizio gli vietò di predicare fuori diocesi senza autorizzazione senza una revisione preventiva dell’autorità ecclesiastica. Quando il quindicinale riaprì, don Primo continuò a scrivere, sotto pseudonimo. Ma i suoi articoli sul tema della pace attirarono nuove sanzioni, che portarono ad una ulteriore proibizione a don Primo: quella di scrivere di temi sociali.
Forse sono stati proprio gli scritti sulla pace ad avere attirato Papa Francesco. Perché si è avviato un percorso che punta a cambiare la dottrina della guerra giusta, ed è passato attraverso un primo convegno sulla non violenza e poi sulla Giornata Mondiale della Pace dedicata allo stesso tema, mentre sembra che la questione sia già allo studio del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, cui è data l’autorità dei catechismi. E Don Primo, in una pubblicazione che si chiamava Tu Non Uccidere, e che uscì anonima nel 1955, aveva attaccato quella dottrina, sottolineando una operazione preferenziale per la non violenza da sostenere con un forte “movimento di resistenza cristiana contro la guerra”. Don Primo sottolineava che la giustizia era “l’altra faccia della pace”, e questo si ritrova anche nella scelta di chiamare “Giustizia e Pace” l’ufficio vaticano, che poi divenne dicastero, che si occupava proprio dei temi sociali “Giustizia e pace è il suo nome è il suo programma”, disse Paolo VI. Un ufficio che non esiste più.
Si sbaglierebbe però a circoscrivere l’operato di don Primo a questo tema, come si sbaglierebbe a farne un prete antisistema. La sua obbedienza è stata sempre, e prima di tutto, al Vangelo e alla Chiesa, e questo è riconosciuto da tutti. Come è riconosciuto il modo “impulsivo” in cui scriveva, che rendeva le sue affermazioni a volte difficili da digerire subito. Una impulsività riconosciuta anche a don Milani. Erano entrambi, a loro modo, profeti.
All’impeto sociale, sia don Milani che don Mazzolari univano la profonda obbedienza alla chiesa. Don Mazzolari la dimostrò, in particolare, di fronte ad ogni ingiunzione del Sant’Uffizio – prima di non scrivere, poi di non dare interviste, poi di non predicare fuori diocesi, poi di restare nella propria parrocchia – ma sempre facendo notare che non veniva mai messo sotto accusa su questioni dottrinali. Ed era vero. Fatto sta che furono una decina i provvedimenti su di lui, dal 1934, al 1960.
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Sulla sua lapide è scritto solamente “Don Primo Mazzolari, sacerdote”, ed era questo che si sentiva, legato tra l’altro ad un concetto classico di parrocchia. Viveva la sua vocazione con l’idea che la Chiesa doveva essere missionaria, e che i lontani dovevano essere al centro dell’attenzione, come spiega nel testo “La bella avventura”, che commenta la parabola del Figliol Prodigo. Senza fare rivoluzioni, pensava ad un parroco come punto di riferimento della comunità, chiamato anche ad una opera di “rievangelizzazione” anche della cristianità.