Quanto è importante l’organizzazione del Congresso Eucaristico a Budapest?
Non è la prima volta che Budapest ospita un Congresso Eucaristico Internazionale. Ce ne fu uno anche nel 1938, che è ricordato da molti anziani. Quel congresso vide la presenza di Eugenio Pacelli, il futuro Papa Pio XII, e questa presenza ebbe un effetto catartico: si viveva l’ultimo sforzo di riconciliare i popoli prima della Seconda Guerra Mondiale, e quel Congresso Eucaristico Internazionale aveva un peso vero. Adesso, abbiamo lo scopo di promuovere un programma di rinnovamento spirituale, riassunto nell’ultimo versetto del salmo 86-87: “Tutte le mie sorgenti sono in te”. Un verso che si riferisce alla Gerusalemme Celeste, perché tutti i popoli hanno lì la loro patria, e tutti hanno la vocazione alla felicità eterna nella casa di Dio. È questa vocazione che ci unisce.
Avete parlato di questo con Papa Francesco nella vostra visita ad limina?
Incontrandoci, Papa Francesco ha parlato dell’identità del vescovo, della preghiera e dell’annuncio della parola di Dio come contenuto essenziale della missione degli apostoli, e in conseguenza dei vescovi. Si è trattato di un incontro bellissimo, caratterizzato da un colloquio molto fraterno, e siamo grati al Santo Padre per questa accoglienza.
Di cosa avete parlato voi vescovi?
Di molte cose. Abbiamo parlato anche degli zingari, che in Ungheria rappresentano l’8 per cento della popolazione. Abbiamo parlato della loro cultura, della loro lingua, e questo ci ha portato a parlare dell’importanza dei piccoli e grandi popoli in Europa. Il Santo Padre ci ha risposto che le culture delle nazioni sono dei veri valori. L’Europa secondo la visione cristiana non è una Europa grigia e uniforme, ma una Europa composta da diverse culture, esperienze e nazioni che tra di loro sono riconciliate e che trovano le radici comuni, che sono per una parte molto notevole le radici cristiane.
Si è parlato anche della possibilità di una Messa nella lingua dei rom?
Il Papa ci ha incoraggiato a preparare questa Messa. I rom in Ungheria parlano diverse lingue. Sebbene la grande maggioranza capisca l’ungherese, molti hanno difficoltà con la nostra lingua. In generale, la lingua rom più diffusa nell’Europa centrale è la lingua “lovarì”, che ha molto a che fare con il sanscrito. Abbiamo accolto la sfida di preparare una traduzione di tutta la Bibbia in questa lingua, come Chiesa cattolica insieme con gli intellettuali rom, e questa traduzione è stata completata dopo un lavoro di più di dieci anni, che è stata poi approvata dalla Conferenza episcopale. Ho consegnato questa traduzione della Bibbia al Santo Padre, che la ha accolta con gioia.
Quindi, ora l’edizione di un Messale è un passo successivo?
Dato che esiste ormai una terminologia per l’intera Bibbia, la traduzione del Messale non è impossibile. Abbiamo dunque formato una commissione, ci stiamo lavorando su e siamo grati al Santo Padre per questo incoraggiamento che ci ha dato nel portare avanti questo lavoro.
Quali sono le priorità dei vescovi ungheresi?
Una delle sfide più grandi riguarda l’educazione nelle scuole e l’insegnamento della religione. In Ungheria, la Chiesa cattolica gestisce 650 scuole. La crescita delle scuole cattoliche in Ungheria ha compensato della metà la perdita numerica delle scuole cattoliche in tutta Europa. Parte di queste scuole sono state restituite alla Chiesa dopo che erano state confiscate durante il regime sovietico, parte vengono dal fatto che è diventato possibile anche assumere la gestione di scuole pubbliche se la grande maggioranza di genitori lo richiede. Dobbiamo lavorare con molta pazienza, con molta comprensione, per avere una identità cattolica di queste scuole, sia di quelle di nostra proprietà, sia di quelle pubbliche in cui ereditiamo i professori. Non deve essere una identità aggressiva, ma deve essere una identità chiara, preziosa, e attrattiva anche per i genitori.
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Lavorate solo nelle scuole di proprietà della Chiesa Cattolica?
No, e questo ci porta alla nostra seconda grande sfida educativa. Sebbene siamo nel contesto di una società secolarizzata, le scuole pubbliche contemplano una lezione settimanale in “etica civile”, materia che può essere rimpiazzata dalla scelta di un insegnamento della religione. Poco più della metà dei genitori sceglie la religione cattolica. Siamo così chiamati a formare buoni maestri di religione. Ce ne sono già parecchi. Ma è una sfida grande, anche perché la maggioranza di questi ragazzi viene da famiglie di non praticanti, e quindi bisogna trasmettere un po’ l’atmosfera della vita religiosa.
L’Ungheria è uno dei Paesi più attivi nel campo della lotta alla persecuzione dei cristiani. Cosa fa la Chiesa?
Per quanto riguarda la persecuzione dei cristiani, esiste una segreteria di Stato presso il governo ungherese che si impegna su questo tema, prende contatto con i gruppi perseguitati, fa arrivare aiuti economici, ma offre anche borse di studio. Noi come Chiesa partecipiamo a questo impegno, in vari modi. Abbiamo fatto due collette nazionali a favore dei perseguitati in Siria e in Iraq, e con i proventi abbiamo costruito una scuola nell’Iraq settentrionale e stiamo lavorando – ma siamo ancora all’inizio – alla ricostruzione in Siria. La nostra azione va al di là dell’ambito strettamente nazionale. Insieme ai vescovi di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Croazia aiutiamo la Caritas Libano per sostenere quelli che vivono nei campi profughi sul territorio libanese, provenienti dalla Siria ma anche da altri Paesi, e che soffrono veramente di tanti problemi e di tanti bisogni. Ci sono tra loro cristiani e non cristiani.
Lei parlava prima di una società secolarizzata. Come vede questa società secolarizzata?
Dopo la dominazione sovietica, stiamo vivendo, da più di due decenni, una fase di graduale rinascita. C’è una ricerca quasi disperata di valori umani e comunitari, perché altrimenti la società si smarrisce in una criminalità generale, come abbiamo visto nei decenni passati nella ex Unione Sovietica. Anche in Ungheria, ovviamente, si sente la secolarizzazione occidentale. Ma la si vive anche con una certa sorpresa e tristezza, quando – ad esempio – arriva la notizia che in Francia si chiede di togliere la croce da un monumento pubblico dedicato a San Giovanni Paolo II. San Giovanni Paolo II senza la croce non è immaginabile, perché la croce era per lui il centro della vita. Non era solo un filantropo, ma un uomo di fede. Senza le convinzioni centrali della fede, le opere di carità cristiana non hanno luogo.