Città del Vaticano , venerdì, 25. dicembre, 2015 15:00 (ACI Stampa).
L’albero di Natale e il presepe di piazza San Pietro non raccontano solo la storia più bella da raccontare, quella di un Dio che si fa bambino e si china sull’uomo. Hanno dentro anche la storia di secoli di rappresentazioni. In che modo l’uomo si immaginava fosse avvenuta la nascita di Gesù? E cosa sta a simboleggiare?
Per il Presepe è facile individuarne le radici profondamente cristiane. Tutti sanno che fu San Francesco d’Assisi a mettere in scena il primo Presepe vivente a Greccio nel 1223, riprendendo una tradizione antica delle raffigurazioni della Natività. Ma fu solo cinquanta anni dopo, nel 1283, che arrivò il Presepe con tutti i personaggi, fatto di statue di legno scolpite da Arnolfo da Cambio. E dalla Toscana, la tradizione del Presepe prese piede a Napoli, dove tra il 1600 e il 1700 furono introdotti anche personaggi immortalati nella vita di tutti i giorni. Tutto ha un senso, nel Presepe. Il bue e l’asinello sono i simboli del popolo ebreo e dei pagani, i pastori l’umanità di redimere, mentre i Magi sono considerati la rappresentazione delle tre età dell’uomo (gioventù, maturità e vecchiaia) oppure come le tre razze in cui si dividerebbe l’umanità secondo la Bibbia (la semita, la giapetica e la camita).
Ecco, i Magi. Sono una storia nella storia, all’interno del Presepe. Persino i loro doni hanno un significato simbolico profondo, perché l’oro è il dono riservato ai re, l’incenso rimanda alla divinità di Gesù, la mirra rimanda all’essere uomo. Ma è tutta la loro storia a intrecciarsi con la storia della rivelazione, a partire dai tempi di Abramo. Perché in fondo il percorso dei Magi ricalca il viaggio di Abramo, che da Ur si incammina verso la terra promessa, e rappresenta la ricerca di Dio da parte dell’uomo.
È stato Massimo Oldoni a scrivere una storia dei Magi, mettendo insieme varie leggende orientali e occidentali e incrociando le fonti. I tre Magi vedono la stella lucente sul monte Vaus. Melchiar, re di Nubia e di Arabia, Balthasar, re di Godolia e di Saba, e Jaspar, re di Tarsis e di Egriselus, partono per seguirla. Fanno strade differenti, e si incrociano a due miglia da Gerusalemme, nel trivio sotto il Calvario. È un momento profondamente simbolico, perché è come se Babele si ricomponesse: i tre Magi parlano tre lingue diverse, eppure si intendono, e comprendono di avere la stessa meta. Arrivano alla mangiatoia di Gesù, e lì depongono i loro doni. Tutti provengono dalla casa di Salomone e dal suo tempio, e sono appartenuti alla Regina di Saba e ad Alessandro Magno. Era proprio del condottiero macedone il pomo d’oro e i trenta denari d’oro deposti da Melchiar nella mangiatoia. Il pomo, appena Gesù lo tocca, si frantuma. Perché l’umiltà di Gesù e l’unicità della sua presenza erano destinati a mandare in mille pezzi le cose vecchie del mondo.
I trenta denari erano invece appartenuti ad Abramo. Li aveva portati da Ur fino ad Hebron, dove li aveva usati per comprare il campo per la sepoltura sua e dei suoi figli. Sono gli stessi denari che passano di mano in mano, e che gli Ismaeliti danno ai fratelli di Giuseppe quando questi lo vendono schiavo. Giuseppe diventa poi viceré d’Egitto, si ricongiunge con i fratelli, comincia un tempo di prosperità. Quando Giuseppe muore, i trenta denari vengono inviati alla Regina di Saba per acquisire aromi da mettere nel sepolcro del patriarca Giuseppe. Poi, la Regina di Saba andò in visita a Salomone, e prese i trenta denari dal tesoro regio per donarli al tempio di Gerusalemme. Al tempo di Re Roboamo, gli Arabi conquistano Gerusalemme, e depredano i tesori del tempio, e li portano nel tesoro del re degli Arabi. Lì li ha presi Melchiar.