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Madre Teresa di Calcutta raccontata da Benny Lai

Madre Teresa  |  | Osservatore Romano/ Aci Group
Madre Teresa | Osservatore Romano/ Aci Group
Madre Teresa e Giovanni Paolo II |  | Osservatore Romano/ Aci Group
Madre Teresa e Giovanni Paolo II | Osservatore Romano/ Aci Group

Sette anni anni fa uni dei vaticanisti più esperti e di lungo corso ci lasciava. Benny Lai aveva scritto di Vaticano dal 1951 fino a poco prima di morire. Tante le testate che avevano pubblicato i suoi articoli, e qualcuno era rimasto nel cassetto dei caporedattori. Ho avuto la fortuna di ereditare insime al collega Andrea Gagliarducci il suo archivio. E anche i suoi pezzi inediti. Come questo profilo di Madre Teresa di Calcutta, scritto dopo la morte della suora. L'omaggio per Benny è questo testo. Un omaggio anche a Santa Teresa di Calcutta.

Era piccola, mingherlina, con il largo volto solcato da rughe e la pelle incartapecorita dal peso degli anni. Uno scricciolo più che una donna con il cuore in disordine da tempo. Eppure bastava avvicinarla e sentirla parlare per rendersi conto che quella figuretta di suora, così mite all’apparenza, nascondeva una forte determinazione e una innata attitudine al comando.

Del resto senza queste doti sarebbe stato impossibile per Madre Teresa di Calcutta fondare un ordine  religioso, acquistare prestigio e autorità nella Chiesa cattolica tuttora maschilista, ottenere il rispetto del mondo laico, persino da parte del Cremlino di Gorbaciov. E tutto per avere realmente esercitato la carità.

La straordinaria vicenda di questa religiosa a cui nel 1979 fu dato il premio Nobel per la pace ha inizio alla fine degli anni Quaranta. Fino ad allora non è che una oscura suora, l’albanese Agnes Gonxa Bojaxhiu, entrata a 18 anni, nel 1928, tra le Sorelle di Loreto, insegnante e poi preside in un convento di Calcutta. C’è un alto muro che divide il convento dal fangoso quartiere di Moti Jheel nei cui tuguri si ammassano migliaia di persone: un desolato spicchio di mondo che attira l’attenzione dell’albanese proveniente da famiglia benestante.

La religiosa racconterà parecchi anni pià tardi: “Dalla mia finestra vedevo da un lato il curato giardino del convento nel quale giocavano con allegria le alunne delle scuole da noi tenute e dall’altro la desolazione e la fame della folla indiana. Una scelta si imponeva”.

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Non fu facile ottenere dalle autorità ecclesiastiche locali e dal Vaticano il permesso di abbandonare il convento per andare a vivere da sola tra i poveri di Calcutta. La fecero aspettare due anni e infine esaudirono il suo desiderio, sicuri che nessun europeo avrebbe potuto resistere a lungo in quel pantano di fame e di malattie. Teresa vi si installò dopo un rapido corso di medicina, alternando l’insegnamento ai bambini, all’inizio servendosi della polvere della strada come lavagna, con l’assistenza agli ammalati. Ad un anno di distanza la raggiunse un’ex allieva del convento, e cominciarno a mendicare per avere cibo, medicine, baracche destinate agli assistiti.

Nel 1950 Madre Teresa fondò l’ordine religioso delle Missionarie della Carità che aveva sede nell’appartamento messo a disposizione da un bengalese. Fu allora che la religiosa, divenuta cittadina indiana, e le sue consorelle, in cui numero andavano accrescendosi, assunsero ufficialmente quale abito il sari di cotone bianco bordato d’azzurro che oggi si vede nelle quasi 400 case dell’Ordine sparse in ogni continente, nell’ospizio per “barboni” fatto costruire da Giovanni Paolo all’interno del Vaticano e, persino, nei due ospedali russi in cui sono state ammesse, dapprima con permesso provvisorio, le religiose di Madre Teresa.

L’aspetto più interessante dell’attività svolta dalla suora è di non essersi dedicata ad una sola categoria di persone, come è sempre accaduto con gli ordini religiosi, ma di aver lavorato per “i più poveri tra i poveri”, fossero affamati, lebbrosi, orfani, anziani bisognosi di venire accuditi, tossicodipendenti, moribondi. Forse l’iniziativa maggiormente significativa di Madre Teresa è stata il Nirmal Hriday di Calcutta, che tradotto in italiano significa “la casa del cuore puro” dove vengono raccolti i moribondi. Un modesto caseggiato sulla riva sinistra del Gange, quasi a ridosso del tempio dedicato alla dea Kali, il cui sacerdote ritenne opportuno rendere ossequio a Papa Wojtyla in visita alla casa nel corso del viaggio in India del febbraio ’86, che accoglie quanti, non trovando posto negli ospedali, sarebbero costretti a morire senza cura.

Donne, uomini, bambini di differenti fedi e credenze religiose, assistiti sovente da giovani europei che collaborano saltuariamente con le suore, ai quali nessuno sollecita conversioni. Si cerca solo di alleviare le sofferenze e dare affetto e compassione, “Con questi – disse Madre Teresa a Wojtyla entrato in una stanza adibita ad obitorio – sono ventiduemila i morti della nostra casa”.

Poche parole, appena un dato, come era costume di Madre Teresa che non teneva infuocati discorsi sulla solidarietà né partecipava a convegni del genere, ma la realizzava personalmente con le sue grandi mani nodose, deformate dal lavoro.