Padova , venerdì, 14. marzo, 2025 18:00 (ACI Stampa).
Il nome di Antonio Canova è noto universalmente per la sua formidabile arte scultoria. Sembrava usare il marmo, il gesso, come molle creta in cui imprimere segni, trasparenze, bellezza capaci di stupire, ammaliare, lasciare stupefatti. Fidia è tornato a vivere, si diceva di lui, rievocando il mitologico scultore greco termine di paragone di una maestria senza pari. Sappiamo di lui molto, ma ancora molto è poco noto al grande pubblico e rivela aspetti affascinanti della sua vita, della sua eprsonalità. Come il suo rapporto inteso, che andrà al di là della vita stessa dell’artista, con il fratellastro. Nato nel 1775 a Crespano da Francesco e Angela Zardo (madre di Antonio Canova, rimasto orfano del padre Pietro nel 1761 e sposatasi in seconde nozze), Giovanni Battista Sartori Canova deve la sua formidabile cultura agli studi e all’educazione ricevuta frequentando il seminario vescovile di Padova. Diventa un abile traduttore dell’aramaico, un fine conoscitore della lingua greca antica e latina, un grande appassionato dell’arte dell’oratoria, mentre coltiva la sua vocazione e decide per la vita religiosa. Intanto Canova fa venire a Roma nel maggio 1800, visto che l’artista si trova nella Città Eterna e lavora a pieno ritmo, dando vita ad un sodalizio fondamentale per entrambi. Non è scontato che accada tra fratelli, anzi diciamo che non succede così di frequente.
Sartori segue il fratello anche nei suoi numerosi viaggi a Parigi, a Vienna e a Londra: è con lui quando va a Londra nel 1815 a vedere i marmi ad opera di Lord Elgin; come pure a Parigi nel 1815 per il recupero del bottino di guerra napoleonico, formato da centinaia di capolavori d’arte italiani trafugati, in primis, dei Musei Vaticani. Incontri, progetti, viaggi, una vita che sancisce la profonda intesa tra i due fratelli. Dopo la morte di Antonio, l’abate Sartori decide di lasciare Roma, nonostante gli vengano offerti posti onorifici di prestigio e preferisce tornare in Veneto, ottiene comunque importanti titoli onorifici, soprattutto la nomina a Vescovo di Mindo conferita nel 1826 da Leone XII.
La decisione di fare rientro in patria, legata anche al lascito testamentario di Antonio, è stata la vera fortuna per i luoghi d’origine e di formazione di Canova. Si deve infatti all’impegno dell’abate la conclusione dei lavori del Tempio di Possagno e la raccolta dei migliori gessi delle opere canoviane, stipati nello studio romano, che fa trasportare a Possagno e lì costruisce uno spazio che diventerà un museo dedicato proprio ai gessi, poi donato al Comune di Possagno assieme alla Casa natale, con la dichiarata richiesta di mantenere e conservare il patrimonio canoviano. Lui continua quell’attività benefica che Antonio aveva iniziato tanti anni prima, dunque il fratello si adopera perché sia aperto il Collegio Canova (1° novembre 1857). A Crespano si occupa di diversi lasciti di proprietà terriere sia con opere di pubblica utilità. Non mancarono di ricevere importanti elargizioni anche gli stessi Seminari di Treviso e di Padova. Sartori , quando arriva la sua ora, lascia come ultima disposizione quella di essere tumulato “nell’area che racchiude le ceneri di suo fratello e ha chiesto che si aggiungessero queste commoventi parole: “Quamodo in vira sua dilexerunt se; ita et in morte non sunt separati”, come si erano amati nel tempo della forza, così anche nella morte non sono separati.
Questa storia di amore, di ricerca della bellezza e di compassione verso i meno fortunati riemerge anche grazie ad una mostra particolare, al cui centro c’è un’opera canoviana praticamente sconosciuta. Il Vaso cinerario di Louise von Callenberg, per la prima volta esposto al pubblico.