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Il genocidio rwandese nel racconto di Gianrenato Riccioni

L'intervista al dottor Gianrenato Riccioni che con la moglie Letizia, decise negli anni ’80 di partire per l'Uganda come responsabile dei progetti di Avsi

Il dottor Riccioni e sua moglie Letizia in Uganda negli anni '80 | Il dottor Riccioni e sua moglie Letizia in Uganda negli anni '80 | Credit G.R. Il dottor Riccioni e sua moglie Letizia in Uganda negli anni '80 | Il dottor Riccioni e sua moglie Letizia in Uganda negli anni '80 | Credit G.R.

“Il genocidio in Rwanda era iniziato il 6 aprile, il giorno stesso in cui era stato abbattuto l’aereo dell’allora presidente Habyarimana… Era stato tutto premeditato, addirittura dalla Cina erano stati importati centinaia di migliaia di machete, arma rudimentale e feroce, ma anche economica… A dare inizio alla carneficina fu la radio nazionale, che incitò a seviziare e uccidere ‘gli scarafaggi Tutsi’. In questo contesto, immagina un manipolo di volontari, armati solo di tanta fede e di speranza, che accettavano di entrare in Rwanda per riportare una goccia di umanità in quell’oceano di male. Avevo 38 anni, e tanta paura, ma dissi di sì e reclutai chi mi potesse seguire”: così inizia il colloquio con il dottor Gianrenato Riccioni, medico anestesista e rianimatore all’ospedale di Macerata, ora in pensione, che con la moglie Letizia, insegnante (genitori di tre bambini), decise al termine degli anni ’80 di partire come responsabile dei progetti di Avsi, organizzazione non governativa cattolica presente in 38 Paesi, per  l’Uganda.

 

Ed il ricordo resta ancora indelebile: “Non era una normale guerra, in Rwanda, era l’inferno. Quelli che fino a poco prima erano stati amici, parenti, addirittura sposi, ora venivano massacrati senza distinzione, con machete, bastoni chiodati, martelli. Perfino le chiese dove i Tutsi si erano rifugiati per sfuggire agli Hutu avevano le pareti rosse di sangue, sembravano dipinte. In quel delirio ero stato chiamato a organizzare in qualche modo una presenza di pace e di ricostruzione… L’estate del 1994, trent’anni fa, segnò indelebilmente la mia vita”.

 

Allora incominciamo dall’inizio: per quale motivo in quel tempo avete scelto di partire per l’Uganda?

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“Il 29 settembre 1984, in un’udienza per i 30 anni del movimento di Comunione e Liberazione, papa san Giovanni Paolo II disse: ‘Andate in tutto il mondo è ciò che Cristo ha detto ai suoi discepoli. Ed io ripeto a voi: Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza, la pace, che si incontrano in Cristo Redentore’. Poi, nel 1985 incontrai il dott. Enrico Guffanti che aveva vissuto 4 anni in Uganda. Io e Maria Letizia, che era diventata mia moglie pochi mesi prima, fummo molto colpiti dalla sua testimonianza. Si percepiva, un’umanità, un’intensità di vita ed una gioia assolutamente desiderabili: diventammo amici”.

 

E quale è stato il contatto con l’Avsi?

“L’amicizia crebbe e agli inizi del 1986 offrimmo la nostra disponibilità, di medico e di insegnante, per la missione. Enrico ci presentò il dott. Arturo Alberti che, nel 1972, aveva fondato l’Avsi, una ONG nata per sostenere chi partiva per la missione”.

 

Quando siete partiti eravate consapevoli di ciò che stava per succedere?

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“Certamente consapevoli di una realtà totalmente altro da ciò a cui eravamo abituati. Ma l’idea della guerra con le sue atrocità, anche se sapevamo dell’instabilità socio politica di quelle zone, non era nei nostri pensieri. Partimmo quindi per l’Uganda: era il 1987. Fummo mandati nel nord del Paese, a Kitgum. Incontrammo i missionari comboniani, uomini con cui nacque una compagnia stringente, che privilegio averli conosciuti.  

 

Dopo un primo periodo scoppiò la guerra, che forse in quella terra così martoriata non era mai terminata. Centinaia di cadaveri accatastati ovunque. Ci battemmo per ottenere il diritto a curare tutti i feriti senza distinzione, amici o nemici. Alla fine delle ostilità ci chiesero di andare ad Hoima,  nel sud ovest dell’Uganda. Eravamo fra i primi bianchi ad entrare nel triangolo di Luweero, territorio famoso per le atrocità avvenute fino a tutto il 1986”. 

 

E come avete vissuto il genocidio che stava avvenendo in Rwanda?

“Nel 1994, quando scoppiò il genocidio, l’ambasciatore ci chiese di valutare, come cooperazione italiana, una disponibilità a promuovere un progetto di emergenza in Rwanda. Tornando a casa ne parlai subito con Maria Letizia. Dissi: ‘Ma io non ci penso nemmeno. Troppo pericoloso, per me e per i miei volontari!’ Ma padre Tiboni, un nostro carissimo amico missionario comboniano, mi invitò invece a considerare la possibilità di iniziare una presenza in Rwanda. 

 

Disse che negli anni era nata un’amicizia con moltissimi ugandesi di origine hutu e tutsi. Cresciuti in Uganda desideravano tornare a casa e lui aveva a cuore queste persone. Mi chiese proprio di accettare, chiese il ‘miracolo’. Accettai, poi la realtà si sarebbe rivelata molto più drammatica di quanto avessi temuto. In quei 100 giorni più di 800.000 persone vennero uccise all’arma bianca”.

 

In tale situazione avete incontrato il console in Rwanda, Pierantonio Costa...

“Mi portò a vedere ciò che stava accadendo, affinché io potessi costruire un progetto fattibile di presenza. Il console Costa mi condusse fuori Kigali nelle baracche di fango sulle colline, dove si erano rifugiati i Tutsi, e là dentro vidi i sopravvissuti amputati col machete, gli occhi impazziti di orrore. Soprattutto però mi impressionò l’orfanotrofio dei padri Rogazionisti a Nyanza: lì erano stati raccolti 800 bambini tutti dai 2 anni in su, perché sotto i 2 anni erano morti, uccisi o dagli Hutu o dalla diarrea. Erano hutu e tutsi insieme, chi morente, chi senza più gli arti, terrorizzati per ciò che avevano visto. Molti erano scappati ai loro stessi parenti (zii, cugini, persino padri e fratelli) componenti di quel 40% di famiglie miste hutu e tutsi che avevano preso a massacrarsi. Costa era andato a Nyanza per portare in salvo i padri Rogazionisti, tra i quali padre Tiziano Pegorari cui gli Hutu avevano promesso la decapitazione, ma questi non se ne volevano andare. Per salvare gli 800 bambini dalla strage il console Costa circondò l’orfanotrofio con bandiere italiane e la scritta ‘Consolato d’Italia’. Funzionò e salvò le vite di questi bambini”.

 

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Quindi cosa significò salvare la vita dei bambini?

“Significò accogliere i bisogni del bambino traumatizzato che poi sono i bisogni del bambino in qualsiasi momento della vita: essere ascoltato, essere accolto in quello che si è vissuto e si vive e aver qualcuno da guardare e da seguire. I bambini portavano i segni di quei mesi terribili: amputazioni, ferite agli arti e/o in testa, alcuni erano rimasti settimane appollaiati sugli alberi, molti non parlavano più. Ad Avsi venne affidato l’orfanatrofio di Nyanza dove c’erano circa 800 bambini hutu e tutsi. Visitando la struttura con padre Tiziano, che ci affidò la realtà, chiesi: ‘Si, ma dove sono i bambini?’ e lui: ‘Ma sono qua!’  Entrai nelle camerate ed erano tutti lì, 800 bambini in un silenzio irreale. Il gruppo di volontari AVSI era formato da personale italiano, belga e ugandese di origine hutu e tutsi. Iniziarono i primi progetti di sostegno ai bambini traumatizzati dalla guerra e, contemporaneamente, anche un’attività di ricerca per rintracciare le famiglie originarie. Più di 500 bambini ritrovarono le loro famiglie”.

 

A distanza di 30 anni quale ricordo conservate di quella missione?

“Il volto e i nomi di questi amici hutu e tutsi che furono e sono la più grande testimonianza di speranza per quei bambini. La nostra esperienza si riassume bene con una espressione che stava a cuore a p. Tiboni ed a tutti noi: ‘E’ nata una nuova tribù … la tribù di Gesù Cristo e questa è la speranza per noi e per questo popolo’. Qualcuno di noi ebbe a dire: ‘Il clima di amicizia e di unità che la gente vede tra noi meraviglia tutti, e a volte meraviglia anche noi stessi’. La presenza di personale ugandese di origine hutu e tutsi, italiano, belga è stato segno tangibile e prezioso di una novità dentro la tragedia: questo amore, fuori da ogni logica umana e previsione, capace di generare speranza”.