L’ispirazione della Pacem in Terris coglie anche il giovane vescovo Karol Wojtyla, che partecipa al Concilio Vaticano II. L’uomo che ha vissuto entrambi i totalitarismi, quello nazista e quello comunista, ha sviluppato una particolare opposizione al regime comunista. Non con le proteste, non con gli attacchi frontali, ma con la formazione intellettuale, l’educazione alla libertà, alla dignità dell’essere umano. È l’umanesimo che salva il mondo.
Il documento conciliare “Dignitatis Humanae”, cui Wojtyla partecipa alacremente, rappresenta uno strumento incredibile per tutti i vescovi che si trovano di là della Cortina di Ferro, che ormai hanno gli strumenti per creare una opposizione silenziosa. Karol Wojtyla lega la difesa della dignità umana al concetto della nazione, e lo contrappone al concetto dello Stato.
Nel frattempo, è cominciata la Ostpolitik vaticana. Agostino Casaroli viene inviato, prima da Giovanni XXIII, poi da Paolo VI, di là nei paesi della Cortina di Ferro, a cominciare un difficile dialogo, una politica di piccoli passi. Un lavoro difficile, che viene in seguito chiamato “il martirio della pazienza”. Un martirio forse poco compreso, ma che costruisce rapporti e riesce sensibilmente ad alleviare le condizioni dei cristiani.
Giovanni Paolo II sceglie Casaroli come suo segretario di Stato. Mentre il Papa, con i suoi pronunciamenti sulla libertà e sulla dignità della persona umana scuote i popoli del Patto di Varsavia, la diplomazia del cardinale Casaroli garantisce una copertura, e provvede a mantenere le relazioni calde.
Nel frattempo, Paul Poupard, che era stato in Segreteria di Stato sotto Giovanni XXIII e Paolo VI, viene chiamato da Giovanni Paolo II a presiedere il Segretariato per i non credenti, e in quel ruolo comincia un dialogo con i filosofi e gli intellettuali dei paesi oltre-cortina, tutto basato sulla cultura.
Da una parte i pronunciamenti di Giovanni Paolo II, dall’altra la diplomazia di Casaroli, e sottotraccia il dibattito culturale, cui si aggiungevano le grandi missioni diplomatiche portate avanti da personaggi come il Cardinale Roger Etchegaray e raffinate da menti raffinate come quella del Cardinale Jean Louis Tauran: è così che venne tirato giù il Muro di Berlino.
Comincia, nel momento della caduta del Muro, una nuova stagione della diplomazia pontificia. Senza i due blocchi come riferimento, Giovanni Paolo II lavora per ridare fiato e vigore alla parte orientale dell’Europa, perché davvero respiri con due polmoni. E riavvia anche la politica “concordatari” che fu quella di Benedetto XV con gli Stati che si andavano formando dopo la Prima Guerra Mondiale.
L'ultimo concordato in forma solenne stipulato dalla Santa Sede riguarda la Polonia, nel 1993. Poi arriva la stagione degli accordi, e Giovanni Paolo II fu un grande Papa concordativo: tra il 1979 e il 2004 furono conclusi accordi bilaterali di vario tipo con 36 stati (in particolare con molte repubbliche precedentemente "sovietiche").
Tra questi accordi, due hanno una particolare importanza “politica”: quello concluso con lo Stato di Israele nel 1993 e quello concluso con l’Autorità Palestinese nel 2000. Di fatto, raccontano di una linea diplomatica che tende al dialogo con tutti, prendendo dalla più antica tradizione vaticana. La Santa Sede non prende mai l’iniziativa di aprire relazioni diplomatiche, aspetta sempre il passo dello Stato che è interessato. Allo stesso tempo, la Santa Sede non è mai quella che interrompe una relazione diplomatica, perché il primo obiettivo è quello pastorale della presenza.
A questa linea istituzionale, Giovanni Paolo II univa la linea pastorale. La diplomazia, in fondo, era al servizio del lavoro pastorale. Lo testimoniano i moltissimi viaggi internazionali: sono stati 105, che hanno coperto 136 Paesi.
Il tema principale era quello della libertà della Chiesa. Giovanni Paolo II arrivava a rendere visibile la Chiesa là dove non lo era o, peggio, era perseguitata. Il suo primo viaggio fu nel Messico dove i sacerdoti nemmeno potevano vestire da sacerdoti, il secondo nella sua Polonia dove andò a squarciare il velo del comunismo. Quando cadde il Muro di Berlino, si recò subito nelle Repubbliche ex sovietiche, a partire dalla Repubblica Ceca dove il dialogo era stato difficilissimo. Fu lui a chiedere la libertà per i greco-cattolici in Ucraina e Romania, fu lui a promuovere una difficile riconciliazione con il mondo ortodosso, tanto che è stato nominato patrono della riconciliazione polacco-ucraina.
E, nella sua omelia a Varsavia, di fronte a 300 mila persone sottolineò: “Il mio pellegrinaggio in Patria, nell’anno in cui la Chiesa in Polonia celebra il nono centenario della morte di San Stanislao, non è forse un particolare segno del nostro pellegrinaggio polacco attraverso la storia della Chiesa, non soltanto lungo le vie della nostra patria, ma anche lungo quelle dell’Europa e del mondo?”
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È il figlio di Polonia che parla e che porta l’anelito di libertà in tutto il mondo. Nell’enciclica Redemptor Hominis, del 1980, Giovanni Paolo II si fa portavoce dei credenti del mondo intero.
Era una diplomazia concreta, quella di Giovanni Paolo II, ma che era anche consapevole del ruolo di guida della Chiesa. Anzi, che voleva che la Chiesa fosse guida nel mondo. Non è un caso che, durante il suo pontificato, le relazioni diplomatiche della Santa Sede si moltiplicano in maniera esponenziale. Nel 1978, la Santa Sede aveva relazioni diplomatiche con poco più di 80 nazioni. Quando Giovanni Paolo II morì, nel 2005, le relazioni diplomatiche erano diventate 174. È il segno che la Santa Sede è riconosciuta e rispettata, e lo prova anche il fatto che Cile e Argentina, ad inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, chiedono a Giovanni Paolo II di risolvere la disputa sul Canale di Beagle che stava per portare ad una guerra.
A contribuire a questa immagine forte della Chiesa sono i viaggi, certo. Ma anche la parola forte del Papa nelle grandi questioni del mondo, e le iniziative di dialogo ecumenico e religioso.
Si pensa naturalmente alla Giornata di Preghiera di Assisi nel 1986, la prima grande iniziativa di questo genere. Eppure, tra i grandi discorsi sulla libertà di San Giovanni Paolo II figura anche quello ai giovani musulmani a Casablanca nel 1985. Un discorso che può essere paragonato per impatto e importanza alla lettera ai capi di Stato firmatari dell'Atto Finale di Helsinki, che diede viva all’OSCE, inviato nel 1980. Ma che va anche messo in questa speciale terna insieme al discorso che Giovanni Paolo II fece a Lourdes nel 1983, incontrando il presidente François Mitterrand.
Parole che valgono ancora oggi e che rappresentano un monito ad ogni Stato. “Senza negare la complessità dei problemi economici e sociali – disse Giovanni Paolo II - è necessario considerare in primo luogo la grave posta spirituale che li sottende, come dicevo solo due mesi fa nel mio Paese: la loro corretta soluzione implica la fedeltà di ognuno alla propria coscienza, una coscienza ben educata a discernere il bene e il male, desiderosa di giustizia, di amore e di verità; una coscienza rispettosa del mistero di Dio, che solo può dare un senso pieno alle esigenze morali, così come all’esistenza stessa: una coscienza sensibile al messaggio del Vangelo”.
Il tema della libertà è centrale, ma la libertà è prima di tutto la libertà di credere in Dio e di vivere la fede. Da questa fede nasce l’inerente dignità dei figli di Dio che porta alle grandi battaglie per la vita e per la famiglia: restano nella storia le posizioni della Santa Sede alla Conferenza ONU su Popolazione e Sviluppo del Cairo nel 1994 e a quella sulla Donna di Pechino nel 1999, posizioni di aperto contrasto alla “cultura della morte” che si andava delineando con le pressioni per la liberalizzazione dell’aborto.