L’omelia del Cardinale Angelo Amato ha ripercorso la vita del nuovo beato, che “educato all’onore e alla realtà” maturò “una fedeltà al Signore Gesù così fortemente radicata da confortarlo nella persecuzione, nell’esilio e nell’abbandono” cui fu sprofondato dopo la sua conversione, lui che era uno dei nobili del Giappone.
Si trattava infatti – ha detto il Cardinale Amato – “un principe di altissimo rango, appartenente alla classe più nobile del Giappone”, che abbraccia il cristianesimo, fonda seminari per la formazione di catechisti, viene esiliato, riabilitato, poi di nuovo esiliato.
Ma “visse da cristiano, non considerando il Vangelo come una realtà estranea alla cultura giapponese”, puntò esclusivamente sulla figura dell’annuncio del Vangelo, e gli “ultimi mesi della sua esistenza furono un continuo corso di esercizi spirituali, accompagnato dalla preghiera, dai sacramenti, dal raccoglimento e dalle conversazioni spirituali con i missionari”.
Un po’ di storia. Justo Takayama nacque nel 1522, tre anni dopo l’introduzione del cristianesimo in Giappone ad opera di Francesco Saverio che colpì molti, tra cui Dario, il padre di Takayama, che si fece cattolico insieme a tutta la famiglia quando Ukon aveva 12 anni, battezzato dal gesuita Gaspare Di Lella.
Era una conversione importante: i Takayama erano daimyo, membri della classe dirigente dei signori feudali, cui era consentito di possedere territori, arruolare eserciti e ingaggiare samurai. Erano secondi per rango solo agli shogun nel Giappone medievale.
Così, i Takayama non solo si convertirono. Appoggiarono le attività missionarie, proteggendo i cristiani giapponesi, e favorendo la conversione di decine di migliaia di giapponesi, secondo una stima citata da padre Witmer, che però ci tiene a sottolineare che non ci sono dati precisi.
Ha scritto padre Witmer sull’Osservatore Romano: “Grazie alle attività missionarie e sociali di Justus, il numero dei cristiani nel dominio di Takatsuki, con circa 30.000 abitanti, aumentò da 600 nel 1576 a 25.000 nel 1583: in pratica la maggioranza del popolo. A lui si deve anche la fondazione della chiesa nella città di Osaka”.
La prima persecuzione comincia nel 1587, quando Justo ha 35 anni, e Toyotomi Hideyoshi, cancelliere del Giappone, decide di espellere i missionari, incoraggiando i cattolici autoctoni ad abiurare. Con coraggio, Justo e suo padre mantennero la loro fede.
Una scelta drastica, perché quando un samurai non obbedisce, perde tutto quello che ha. Justo sopravvive solo grazie alla protezione dei suoi amici aristocratici, subendo enormi pressioni per abiurare la sua fede.
Nel 1597, sempre Toyotomi ordina l’esecuzione per crocifissione di 26 cattolici, sia stranieri che giapponesi. Questo non scoraggiò Ukon Takayama. Fu parzialmente riabilitato. Ma quando nel 1614 lo shogun Tokugawa Ieyasu bandì definitivamente il cristianesimo, Justo partì per l’esilio e guidò un gruppo di 300 cattolici verso le Filippine. Si stabilirono a Manila. Ma l’inverno rigido diede il colpo di grazia al fisico di Justo Takayama, già provato dalle persecuzioni in Giappone. E questi morì il 4 febbraio dell’anno successivo.
Quale l’eredità di Justo Takayama? Ha detto il Cardinale Amato: “Viveva di fede. E la viveva valorizzando le tradizioni della sua cultura”. Aveva – ha aggiunto – “colto il messaggio centrale di Gesù, la legge della carità. Per questo era misericordioso con i suoi sudditi, aiutava i poveri, dava il sostentamento ai samurai bisognosi. Fondò la confraternita della misericordia. Visitava gli ammalati, era generoso nell’elemosina, portava assieme al padre la bara dei defunti che non avevano famiglia e provvedeva a seppellirli”.
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