Città del Vaticano , mercoledì, 17. luglio, 2019 10:00 (ACI Stampa).
C’era stata persino l’idea di abolire i nunzi e di trasferirne le attività alle Conferenze Episcopali nazionali. Si trattava di un dibattito che nasceva con il Concilio Vaticano II, e con l’idea di valorizzare il ministero episcopale, equilibrando il Concilio Vaticano I che aveva esaltato il primato petrino e creare un nuovo bilanciamento di poteri. Paolo VI, però, non la vedeva così. Non si trattava di un mero incarico amministrativo. E lo spiegò nel motu proprio Sollicitudo Omnium Ecclesiarum, che quest’anno fa cinquanta anni.
Si tratta di un testo importantissimo per comprendere compiti e ruoli degli “ambasciatori del Papa”. Ma, soprattutto, per comprendere da dove nasce la ratio di tante azioni della diplomazia pontificia che, viste dall’esterno, potrebbero sembrare mera burocrazia. Fanno parte, invece, di una precisa necessità: quella di tutelare la Chiesa locale.
Ma che ci fossero due visioni in gioco era testimoniato dal fatto che il Cardinale Leo Suenenes, uno dei padri del Concilio Vaticano II, considerava i nunzi come “ispettori” che erano andati a controllare le Chiese locali, mentre Giovambattista Montini, negli Anni Trenta, insegnava agli allievi dell’Accademia Ecclesiastica che no, il nunzio non andava a togliere le libertà dei vescovi, ma piuttosto a garantirle.
Ed è un tema che si ritrova nella Sollicitudo Omnium Ecclesiarum.
Paolo VI parte proprio dalla necessità, da parte del Papa, di essere un pastore presente ovunque, vicino ai fedeli, ma anche verso i seguaci “che non sono di questo ovile”, perché “il nostro pensiero e la cura pastorale è rivolta pure a loro, perché si compia il desiderio del Signore, che si costituisca un solo gregge, un solo Pastore”.