Il 19 aprile, l’arcivescovo Auza ha parlato ad un side event su “Violazione dei Diritti Umani in Amazzonia: Reti per Rispondere e per riparare”. Il tema è particolarmente importante in vista del Sinodo Speciale per la Regione Pan-Amazzonica convocato da Papa Francesco per il 2019, del quale proprio la scorsa settimana è stato deciso il tema.
Il side event si è tenuto durante la 17esima sessione del Forum Permanente delle Nazioni Unite per le Questioni Indigene. L’arcivescovo Auza ha insistito che i popoli indigeni debbano sempre essere trattati come “partner con una propria dignità nel costruire il loro sviluppo e destino”, con il diritto a dare un consenso “libero, anticipato e informato ai temi che li riguardano”.
L’arcivescovo Auza ha anche messo in luce un tema di cui Papa Francesco aveva parlato durante il viaggio in Perù: la sfida del neo estrattivismo e le forme di conservazione che non sono attente ai bisogni dei popoli indigeni. L’Osservatore della Santa Sede ha chiesto uno sguardo nuovo, che la smetta di considerare l’Amazzonia come “una infinita miniera di beni per le altre nazioni”.
Canada, un potenziale rischio diplomatico
Il dibattito sui popoli indigeni è acceso anche in Canada, dove continua la pressione del governo perché il Papa vada personalmente nel Paese per affrontare la questione.
Il prossimo mercoledì, la Camera dei Comuni Canadese discuterà una mozione per chiedere a Papa Francesco di scusarsi per quanto accaduto nelle cosiddette “scuole residenziali”. Le “scuole residenziali” sono istituti gestiti da Chiese cristiane dove – a partire dalla metà dell’Ottocento e per quasi tutto il XX secolo – il governo federale trasferì forzatamente 150 mila bambini delle tribù native. Sono almeno 6 mila i bambini morti in queste strutture, in cui si cercava di assimilare forzatamente i bambini allo Stato.
La Conferenza Episcopale Canadese ha inviato nel pomeriggio dello scorso 16 aprile una e-mail a tutti i parlamentari, sottolineando la presenza di “incomprensioni ed errori” nella mozione. Nella lettera, dei vescovi, questi fanno sapere che “la Chiesa Cattolica nella sua interezza in Canada non è stata associata con le scuole residenziali”, e che solo 16 delle 61 diocesi cattoliche furono coinvolte, insieme a 36 congregazioni religiose su più di cento.
Una visita del Papa in Canada era richiesta anche dai 94 “actions plan” che concludevano il lavoro della Commissione Verità e Riconciliazione sul tema, e l’invito era stato reiterato dal premier Justin Trudaeu, quando questi era stato in visita in Vaticano lo scorso 27 maggio.
Nella lettera, i vescovi delineano quali sono le reali responsabilità della Chiesa nel sistema delle scuole residenziali, e affermano che il Papa non andrà in Canada per chiedere perdono.
Benedetto XVI aveva incontrato il grande capo dell’Assemblea dei Nativi del Canada, Phil Fontaine nel 2009, e nell’occasione aveva manifestato “profondo dispiacere” per quanto successo. Lo stesso Fontaine aveva detto che per lui la questione era chiusa, ma – chiamato in causa sulla nuova richiesta di perdono – ha riaperto la questione, sottolineando di non essere a conoscenza di quanto era esteso il fenomeno delle violenze.
Parolin in Oceania, contro lo sfruttamento minerario sottomarino
Il tema dello sfruttamento delle risorse marine, discusso invece alle Nazioni Unite lo scorso 16 aprile, è stato il centro dell’intervento del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, all’assemblea quadriennale delle Conferenze Episcopali del Pacifico che si è tenuta a Port Moresby dall’11 al 18 aprile. Fedele al tema care for our common home of oceania: a sea of possibilities, il Segretario di Stato vaticano ha appoggiato la richiesta dei vescovi del luogo per la sospensione del primo progetto mondiale di sfruttamento minerario marino al largo di Papua Nuova Guinea.
Il discorso del Cardinale sottolineava che lo sfruttamento delle risorse naturali “fino alle profondità marine” era una delle attività che metteva a rischio l’ecosistema e le popolazioni che ne possono essere danneggiate, facendo così un riferimento indiretto alla autorizzazione data dalle autorità locali alla compagnia canadese Nautilus Minerals.
Subito dopo il Cardinale, ha parlato il professor Ottmar Edenhofer, che ha sottolineato come proprio Papua è la più esposta all’innalzamento del livello marino e all’intensificarsi dei tifoni. Da notare che, prima della stesura della Laudato Si, il 5 febbraio 2015, il presidente di Kiribati Tong era stato da Papa Francesco chiedendo attenzione per il suo arcipelago micronesiano che rischiava di essere spazzato via dall’innalzamento del livello del mare.
L’appello contro lo sfruttamento minerario sottomarino è la nuova frontiera della diplomazia della Santa Sede, che da sempre si è impegnata contro lo sfruttamento minerario. Dal 17 al 19 settembre2 2015, l’allora Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace tenne un convegno sul tema “Uniti a Dio ascoltiamo un grido” che affrontava proprio il problema. Nel messaggio inviato per l’occasione, Papa Francesco auspicava che “l’intero settore minerario è indubbiamente chiamato a compiere un radicale cambiamento di paradigma per migliorare la situazione in molti Paesi”, in primo luogo con il coinvolgimento dei “governi”, degli “imprenditori”, degli “investitori”, fino ai “consumatori”.
Altro nodo diplomatico emerso nella Conferenza episcopale di Oceania è stato quello dei rifugiati. In particolare si è parlato dei rifugiati che vengono da tutto il mondo e che sono condotti dal governo australiano in centri di detenzione su isole che appartengono al territorio nazionale di Papua secondo un accordo tra i due Stati. C’era un centro di detenzione sull’isola Manus: è stato chiuso nell’ottobre 2017, ma circa 600 richiedenti asilo in Australia vivono sull’isola, in un limbo legale e trasferiti e in strutture di transizione sulla stessa isola, da dove non si possono muovere, senza documenti né la possibilità di lavorare o lasciare l’isola.
Santa Sede, anche il commercio on line non escluda i più poveri
La Santa Sede prende posizione sull’e-commerce, il commercio on line. Lo ha fatto con un intervento dell’arcivescovo Ivan Jurkovic, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’ufficio ONU di Ginevra, che si è tenuto a Ginevra lo scorso 18 aprile alla Secoda Sessione del Gruppo di Esperti intergovernativo sull’e-commerce e l’economia digitale.
Nel suo intervento, l’arcivescovo Jurkovic ha messo in rischio “il potenziale e grande rischio” che l’economia digitale abbia “profonde e negative conseguenze riguardo l’organizzazione industriale, lo sviluppo delle abilità, la produzione e il commercio”, e chiesto una appropriata cornice di regolamentazione.
L’arcivescovo ha notato che la tecnologia digitale si sta espandendo in molti modi: dalla produzione di informazione e comunicazione che si stima ammonti al 6,5 per cento del PIL mondiale al commercio on line che nel 2015 ha venduto per un valore pari a 25,3 trilioni di dollari, mentre ci si aspetta che il volume del traffico internet cresca 66 volte rispetto a quanto registrato nel 2015.
Eppure, tutto questo crea delle diseguaglianze, perché metà della popolazione del mondo è “off line”, e così il cosiddetto “digital divide” resta una sfida forte.
Per questo motivo – nota la Santa Sede – i politici dovrebbero fare attenzione a lavorare per un e-commerce inclusivo, considerando che le digitalizzazione delle attività economico è di una certa rilevanza per diversi dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile.
L’obiettivo della Santa Sede è che tutti abbiano pari opportunità. Così l’arcivescovo Jurkovic, nel suo intervento, nota che, sì, le nuove soluzioni digitale creano nuove opportunità anche per compagnie piccole di entrare nel commercio internazionale, ma che è anche vero che “molte piccole compagnie in nazioni in via di sviluppo” restano in una fase di limitato sviluppo tecnologico, e per questo è importante che “i sistemi digitali siano designati in modo che si faciliti una effettiva integrazione delle compagnie più piccole nella catena dei valori globali”.
Un altro problema che mette fuori gioco le nazioni in via di sviluppo – ha notato la Santa Sede – è il fatto che in molti casi queste non abbiano i mezzi per rispondere ai requisiti bancari, e dunque non possono offrire soluzioni integrate di pagamento.
Insomma, l’attuale gap che si vede tra gli Stati in connettività e possibilità dell’e-commerce “implica che i profitti non siano equamente distribuiti”, e per questo l’obiettivo futuro è di lavorare insieme per generare nuovi modelli di sviluppo economico.
Il grido della Chiesa cattolica in Ciad
I vescovi del Ciad lo scorso 19 aprile hanno levato la loro voce in favore di una nuova Costituzione, da fare in “accordo con la Costituzione”, ovvero mediante referendum.. Succede mentre il Ciad vede rafforzarsi i poteri del capo dello Stato Idriss Deby. “L’adozione della Costituzione attraverso mezzi parlamentari – hanno sottolineato i vescovi – rischia di distorcere seriamente le regole del gioco democratico”.
Il Ciad ha rapporti diplomatici con la Santa Sede dal 1960. In quell’anno fu istituita la delegazione apostolica dell’Africa Centro-occidentale, che aveva giurisdizione su Ciad, Nigeria, Camerun, Gabon, Oubangui- Chari e Congo e aveva sede a Lagos, in Nigeria. La nuova delegazione apostolica, con sede a Yaoundé, in Camerun, fu istituita nel 1965 e aveva giurisdizione su Ciad, Repubblica Centrafricana, Camerun, Congo e Gabon. Del 1973 la prima delegazione apostolica del Ciad, con sede a Bangui (Repubblica Centrafricana), mentre la nunziatura fu stabilita nel 1998: il nunzio apostolico ricopre lo stesso incarico per la Repubblica Centrafricana.
Nel 2013, Santa Sede e Ciad hanno definito un accordo quadro che definisce lo status giuridico della Chiesa.