Quindi, appena un gradino sotto il podio della vergogna, il Sudan, che fu visitato da Giovanni Paolo II e che fu evangelizzato in tempi antichissimi. Eppure, ora la maggioranza islamica punisce una eventuale conversione al cristianesimo con la pena di morte per apostasia. In Sudan, c’è anche un programma di demolizione delle chiese.
Altri Paesi della top ten: Pakistan, Eritea, Libia, Iraq, Yemen, Iran.
Rispetto alla classifica del 2016, si registra il ritorno della Libia tra i primi dieci Paesi in cui i cristiani sono a rischio, e l’uscita della Siria dalla top ten, complice anche la fine del conflitto con l’ISIS che però non ha ancora risolto tutti i problemi sul territorio. L’Egitto è al 17esimo posto a causa degli attentati che soffrono i cristiani copti – 128 cristiani egiziani sono stati uccisi lo scorso anno da attacchi per motivazioni religiose. In generale, il rapporto mette in luce che la situazione in tutto il Medio Oriente è peggiorata in questi anni, anche con l’ingresso della Turchia nella lista a causa della “progressiva islamizzazione del Paese”.
Entra in lista il Nepal, dove sono cresciuti gli estremisti indù. Sitauzione sempre complessa in India, che ha visto lo scorso anno abusi mentali o fisici su 23.793 cristiani, in una situazione che va deteriorandosi sin dal 2014 a causa delle leggi anti conversione.
Emergono segni di persecuzione nel Sud Est Asiatico, in Malesia e Indonesia, ma anche alle Maldive, un altro dei Paesi in cui lasciare l’Islam è punibile con la morte.
Uno sguardo speciale per la Nigeria, che vive ancora il dramma degli attentati di Boko Haram: si conta che lo scorso anno siano stati uccisi più di 2 mila cristiani.
La sottile persecuzione nel cuore dell’Europa
Sono questi i numeri della persecuzione riconosciuta dei cristiani. Ma poi c’è una persecuzione nascosta, anche quella pericolosa. Il Cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, ha parlato la scorsa settimana con Aiuto alla Chiesa che Soffre di un esodo di cristiani che sta avvenendo in Bosnia. Il Cardinale ha spiegato che “è ancora più difficile per i cattolici difendere i diritti fondamentali”, e per questo “più di 10 mila cattolici stanno lasciando la Bosnia Erzegovina ogni anno”.
Una emorragia, ha spiegato il Cardinale, che è stata ereditata dalla guerra del 1992-1995, la quale ha fatto sì che almeno 250 mila fedeli diventassero rifugiati, “espulsi dalle loro case”, e senza ricevere alcun supporto “politico o finanziario per il loro ritorno”, mentre “gli accordi di Dayton non sono stati implementati” e a soffrire è stata soprattutto la minoranza cattolico-croata.
“Se non ci saranno più croati qui – ha detto il Cardinale – non ci saranno più cattolici, perché la maggior parte dei croati sono cattolici. Per questo è importante creare una situazione di eguali diritti”.
Il Cardinale Puljic ha spiegato che il problema principale è guarire le ferite della guerra, “perdonandosi gli uni con gli altri”. Un tema, questo, che fu centrale durante la visita di Papa Francesco a Sarajevo, nel giugno 2015.
Il Focus sulla penisola coreana
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Il discorso di Papa Francesco al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede ha toccato anche il tema della pace nella penisola coreana. La Santa Sede segue con attenzione le vicende nella penisola coreana, e allo stesso tempo i vescovi della Corea del Sud sperano che Papa Francesco possa mediare nella crisi con il Nord Corea, aprendo ponti di dialogo con gli Stati Uniti.
L’incontro dell’8 gennaio con gli ambasciatori è stato anche l’ultimo atto ufficiale dell’ambasciatore Jonghyu Jeong, che è stato lo scorso 11 gennaio in visita da Papa Francesco. Arriverà presto il nuovo ambasciatore, Baek-man Lee, cattolico praticante battezzato Giuseppe, un ex giornalista che durante la presidenza Moohyean Rho è stato segretario e consulente di comunicazione del presidente. Tra le sue attività, quello di cooperatore dei Gesuiti in Corea, con i quali ha svolto varie attività umanitarie, tra cui una missione in Cambogia per i ragazzini mutilati dalle mine rimaste dalla guerra di Indocina.
Angola e Santa Sede, presto un accordo di cooperazione
Angola e Santa Sede, passi avanti verso un accordo di cooperazione. La volontà di dare una forma giuridica alle buone relazioni tra i due Paesi è emerso in un incontro il 9 gennaio a Luanda tra l’Arcivescovo Petar Rajic, nunzio apostolico in Angola, e il ministro degli Affari Esteri angolano Manuel Augusto. Il progetto di una accordo quadro tra i due Stati dura da diversi anni, e ora si attende che il documento sia completato dal ministero degli Esteri.
In una conferenza stampa a seguito dell’incontro tra il nunzio e il ministro degli Esteri, l’arcivescovo Rajic ha sottolineato che è importante che tutte le istituzioni della Chiesa - diocesi, congregazioni religiose e scuole cattoliche, ma anche le istituzioni educative e sanitarie – siano riconosciute come entità legali.
L’accordo con l’Angola si aggiungerebbe ai più di settanta che la Santa Sede ha in vigore con Stati e autorità regionali. Due, in particolare, gli accordi che la Santa Sede ha firmato nel 2017: il 3 febbraio, l’Accordo quadro tra la Santa Sede e la Repubblica del Congo sulle relazioni tra la Chiesa cattolica e lo Stato; e il 22 agosto, l’Accordo tra la Segreteria di Stato e il Governo della Federazione Russa sui viaggi senza visto dei titolari di passaporti diplomatici.