Che ci fosse un movimento verso l’unione con la Chiesa cattolica da parte di alcuni gruppi di anglicani era cosa evidente. Che questo movimento fosse anche accentuato dal distacco della comunione anglicana verso parte della tradizione era altrettanto ovvio. Le crisi interne al mondo anglicano, in fondo, non sono mancate negli ultimi anni. A gennaio 2016, Canterbury ha sospeso per tre anni dalla comunione la Chiesa episcopaliana USA che aveva deciso di benedire le nozze gay. Nel 2012, il dibattito sul sacerdozio e vescovi donne aveva creato un dibattito durissimo, con dibattiti combattuti a suon di “leaks” sui giornali più progressisti per favorire l’accettazione delle donne vescovo.
Ovviamente, la Chiesa cattolica non entra nei dibattiti interni della comunione anglicana. Si limita a ricevere un desiderio e a cercare un modo di soddisfarlo. La visita dei vescovi della Traditional Anglican Communion in Congregazione della Dottrina della Fede del 9 ottobre 2007 è lo spartiacque decisivo.
Racconta l’arcivescovo Di Noia: “I vescovi visitarono la Congregazione della Dottrina della Fede e chiesero di entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica. Tutti i vescovi e sacerdoti hanno firmato sull’altare la petizione e insieme le copie del catechismo e del compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, nel giorno della festa di Santa Teresa di Lisieux”.
Benedetto XVI viene informato dal Cardinale William Levada, allora prefetto della Congregazione e recentemente scomparso, durante l’udienza di tabella del 12 ottobre 2007. La commissione chiamata a studiare la questione si riunisce già a partire dal dicembre 2007.
Alla fine, si individua negli ordinariati personali la formula migliore per permettere a gruppi di anglicani di entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica. In questo modo, si cercava da un lato di salvaguardare le tradizioni liturgiche, spirituali e pastorali e dall’altro che i nuovi pastori fossero pienamente integrati nella Chiesa cattolica.
Padre Gianfranco Ghirlanda, durante il convegno, ha spiegato i passaggi che hanno portato alla scelta di stabilire un ordinariato personale. “Sin dall’inizio – ha detto era chiaro che si dovesse trovare una figura canonica che permettesse l’integrazione corporativa nella Chiesa cattolica di fedeli di ogni stato di vita provenienti dall’anglicanesimo, ma, nello stesso tempo, la protezione del loro patrimonio spirituale, liturgico teologico e rituale”. E subito si era compreso che non poteva funzionare né la figura della Chiesa sui iuris distinta dalla Chiesa latina, perché “la tradizione liturgica, spirituale e pastorale anglicana si configura piuttosto come una particolarità all’interno della Chiesa latina”. Né poteva funzionare lo stabilimento di una prelatura personale perché “secondo il canone 296, pur con una larga interpretazione, i laici non si possono dire incorporati in una prelatura in maniera esclusiva”, mentre la figura dell’Amministrazione apostolica personale, per “evitare equivoci”.
Si è trattato, insomma, di una scelta ponderata, che si inserisce nella tradizione della Chiesa, e nei rinnovati rapporti, con una direzione precisa data da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Come detto, la commissione speciale sul tema era già attiva dal 2007, il tema dell’ordinazione delle donne nella comunione anglicana entra come un casus belli, ma quando poi gli anglicani cominciano a decidere di ordinare donne vescovo, la questione si fa scottante. La commissione speciale decide di preservare il lavoro fatto, consapevole delle sostanziali aree di consenso dottrinale.
La Congregazione, ha spiegato l’arcivescovo Di Noia, “aveva capito che non solo gli anglicani ‘cattolici’, ma anche altri avrebbero trovato interesse ad entrare in comunione con la Chiesa cattolica”, non ha sottovalutato che gli anglicani sono simili ad altre comunità, ha quindi messo in luce l’opportunità che la Santa Sede prendesse l’iniziativa, piuttosto che lasciarla alle Conferenze Episcopali, proponendo “soluzioni più ampie ed applicative”, accettando anche il requisito dell’ordinazione, accettando l’ingresso dei sacerdoti sposati, ma non quelli divorziati e risposati. Per ragioni dottrinali, non si possono accettare vescovi sposati, e così il vescovo anglicano che entra in comunione con Roma, se sposato, perde lo status di vescovo.
Nel momento in cui diventano cattolici, gli ex vescovi anglicani perdono il titolo di vescovo, ma possono guidare l’ordinariato con il titolo di monsignore, pur con il diritto di portare i simboli pastorali della dignità di vescovo.
Si è così creata una “bolla” che permetta agli ex anglicani di mantenere la loro tradizione, pur entrando in comunione con Roma. Ha spiegato padre Ghirlanda: “Il carattere di esclusività della potestà dell’ordinario, insieme alla relazione oggettiva che i membri dell’ordinario debbano avere con l’anglicanesimo, evita l’assorbimento dei fedeli provenienti dall’anglicanesimo nella diocesi territoriale, e quindi garantisce la permanenza nella tradizione spirituale, teologica, liturgica e pastorale dell’Anglicanesimo”, mentre “il carattere di vicarietà della potestà dell’ordinario fa sì che la dipendenza diretta del romano pontefice meglio eviti l’isolamento dell’Ordinario, e faciliti la sua integrazione nella vita della Chiesa Cattolica”.
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