Capitolo Pakistan. Sono negli occhi di tutti le proteste dei radicalisti islamici dopo la sentenza che annullava la condanna a morte di Asia Bibi, condannata per blasfemia perché denunciata per aver bevuto a un pozzo dove si abbeveravano anche musulmani. Uscita dal carcere qualche giorno dopo, all’arrivo delle necessarie carte burocratiche, Asia Bibi e la famiglia sono ancora nel Paese, mentre si cerca un canale diplomatico per sottrarla alla possibile violenza di coloro che hanno protestato per la sentenza, anche in maniera violenta. Sono i sintomi di una situazione che in Pakistan è sempre sui livelli di allarme. L’intenzione degli estremisti è quella di trasformare il Paese in uno Stato islamico, e ogni modifica eventuale alla legge sulla blasfemia – di cui, è bene ricordare, le prime vittime sono musulmane – è fortemente osteggiata. Nel Paese del martirio di Shabhaz Bhatti e dell’assassinio del governatore Salman Taseer, entrambi colpevoli di voler modificare la legge, anche il ministro dell’interno Ahsan Iqbal si è salvato miracolosamente da un attentato nel maggio 2018, dopo che questi aveva visitato una comunità cristiana a Narowal. In trenta anni, la legge ha provocato 40 condanne a morte e 60 esecuzioni extragiudiziali, più migliaia di accuse, di cui l’80 per cento considerate false.
Ci sono misure oppressive ultra nazionaliste anche in Tagikistan, dove una legge del 2017 è stata approvata una legge che ha chiesto alle donne di indossare abiti più in linea con la tradizione locale, cosa che ha portato all’arresto, in un solo mese, di 8 mila donne musulmane perché portavano il velo. In Turkmenistan, sono state inasprite le sanzioni ai gruppi religiosi in cerca di riconoscimento statale con “La legge della religione” del 2016, mentre sono frequenti le irruzioni delle Chiese.
Ed è a livelli di guardia anche la Turchia: dopo aver sostenuto i diritti delle minoranze, l’agenda del presidente Recep Tayyip Erdogan è cambiata dopo il fallito “golpe” del luglio 2016. E così, i musulmani aleviti hanno visto le moschee riadattate a templi sunniti, mentre sono state chiuse due emittenti televisive sciite jaaferi per diffusione di propaganda terroristica. C’è da una parte una Turchia che prova a dialogare, come dimostra il recente viaggio del presidente turco Erdogan da Papa Francesco, e un’altra che al suo interno punta a ricompattare la ragione.
Guardando in Africa, è l’Eritrea ad avere maggiori problemi: il governo vuole controllare le istituzioni religiose e incarcera i membri dei gruppi religiosi non registrati, mentre le autorità hanno anche preso il controllo di molte scuole religiose cristiane, musulmane e ortodosse. Da vedere come cambierà la prospettiva con la pace con l’Etiopia, e il nuovo vento internazionale di cui anche i leaders religiosi possono prendersi il merito.
La Santa Sede ha un forte dialogo con l’Iran, ed è a Qom, nella Università delle Denominazioni Religiose, che si è persino pensato ad un progetto di un catechismo in farsi, presentato qualche anno fa. Ma la situazione, a livello interno, è dura: i non musulmani non sono ammessi nei ranghi della magistratura e della polizia, l’abbigliamento islamico è obbligatorio anche per le donne non musulmane, è aumentata la pressione sui baha’i, così come il numero di musulmani sufi detenut, nonché la diffusione dell’antisemitismo, mentre crescono le condanne a carico dei fedeli delle Chiese domestiche.
Quindi, il Myanmar. Recentemente, il Cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, a Roma come presidente delegato del Sinodo sui giovani, ha reiterato alla Segreteria di Stato vaticana la richiesta di patrocinare una conferenza internazionale sulla situazione in Myanmar, con particolare riferimento ai musulmani dello Stato di Rakhine, ovvero i rohingya. E le trattative sul rimpatrio dei rhoingya dal Bangladesh e dalla Birmania sono state rinviate all’anno prossimo.
La loro situazione, delineata nel rapporto ACS, è drammatica: sono quasi 700 mila i Rohingya fuggitia dal Myanmar verso il Bangladesh, raggiungendo i 200 mila rohingya già nel Paese, secondo quella che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha descritto come “una pulizia etnica da manuale”.
Una pulizia etnica che ha anche ragioni politiche, ma da cui non sfugge il dato religioso. E in cui, tra l’altro, si è inserita anche la costituzione di un esercito islamico, la cui presenza giustifica, purtroppo, gli atti di repressione del governo.
Questo porta a un secondo tema del rapporto, e cioè la diffusione di movimenti militanti islamici, in qualche modo mascherati dalle compagne contro l’ISIS. Così, se Boko Haram perde terreno in Nigeria, ci sono nuovi gruppi più piccoli, come quello dei fulani, che hanno attaccato contadini cristiani nella middle belt del Paese, con l’idea – denunciata dai vescovi locali – di portare avanti “una chiara agenda per islamizzare un’area prevalentemente cristiana”.
Il Niger, da parte sua, è accerchiato da gruppi islamisti, come Al Qaeda nel Maghreb islamico, che opera in Mali (non a caso la visita del Cardinale Pietro Parolin in Mali per il centotrentenario della Chiesa locale rappresentava anche una chiara iniziativa dipomatica), o l’ISIS in Libia, fino ai gruppi fulani che operano sia in Mali e sia in Burkina Faso. In quest’ultimo Stato, che sta anche lavorando ad un accordo con la Satna Sede, un campanello d’allarme è stato lanciato con il rapimento del missionario Pierluigi Maccalli.
Ma la più grande nazione islamica del mondo è l’Indonesia, e lì, il 13 maggio 2018, tre chiese sono state attaccate a Surabaya, causando 13 vittime. Non solo i cristiani sono sotto attacco: anche musulmani sciiti e ahmadi hanno subito violenze e discriminazioni, così come la comunità buddista.
Del Bangladesh, è noto l’attentato dell’1 luglio 2016, quando 22 persone sono rimaste uccise in un attacco ad una caffetteria di Dhaka. È la punta dell’iceberg di un fenomeno che, nei due anni prese in esame dal rapporto, ha causato la morte di altri 18 intellettuali.
Il rapporto ACS mette in luce anche una situazione di persecuzione in Palestina, con una drammatica situazione che riguarda la Chiesa locale a Gaza e che ha portato i cristiani nella striscia a diminuire del 75 per cento: erano 4500 sei anni fa, oggi sono 1000.
Anche in Egitto i cristiani sono sotto attacco. Il rapporto non può, per ovvie ragioni, includere nel conto l’ultimo del 2 novembre, che ha preso di mira i cristiani copti. Ma, nei due anni analizzati, ci sono stati quattro gravi attentati, avvenuti al Cairo, Alessandria, Tanta e Minya.
Oltre agli attentati, in Egitto si registra il crescente fenomeno del rapimento e la conversione forzata all’Islam di adolescenti, ragazze e donne cristiane: ad aprile 2018 sono state rapite sette ragazze, mentre un uomo che lavorava per una rete di sequestratori ha rivelato di ricevere circa 2500 euro da organizzazioni estremiste per ogni ragazza. La polizia spesso fa resistenza alle famiglie.
In Pakistan, le donne delle minoranze sono vittime di violenza anche perché, se non possono dimostrare che il rapporto è avvenuto contro la loro volontà sono considerate colpevoli di adulterio.
Senza considerare il fatto che i jihadisti usano anche lo stupro come arma di guerra, perché non solo convertono forzatamente una donna, ma crescono anche i suoi figli nell’Islam radicale, assicurando una “prossima generazione di jihadisti”, e in più impediscono le nascite alle religioni “concorrenti”.
In Europa, il rapporto nota che è cresciuto l’antisemitismo, specialmente in Francia, dove c’è la più grande comunità ebraica di Europa che è stata oggetto di un picco, documentato, di attacchi antisemiti e violenze contro centri culturali e religiosi ebraici. L’antisemitismo è spesso legato alla crescita dell’Islam militante in occidente, mentre la crisi migratoria porta spesso con sé una crescita dell’avversione nei confronti dell’Islam.
Di certo, nei due anni presi in esame dal Rapporto si è notato il ritorno degli attacchi terroristici in Occidente, a Manchester, Berlino, Barcellona, Parigi. Attentati che hanno, sì, anche ragioni politiche (come la protesta per le politiche occidentali in Siria), ma che non mancano di avere una motivazione religiosa di fondo. Gli attentatori de Las Ramblas di Barcellona volevano, in fondo, anche attaccare la Sagrada Familia.
Eppure, tutto questo accade nell’indifferenza. Il martirio di padre Jacques Hamel, ad agosto 2016, era stato preceduto da una serie di piccoli attacchi, anche hacker, alle comunità cristiane riportati e caduti nell’indifferenza. E l’Occidente secolarizzato sembra ignorare le condizioni delle minoranze, non li aiuta, e non provvede – si legge nel rapporto – “a fornire la necessaria e urgente assistenza ai gruppi di fede minoritari, in particolare alle comunità di sfollati che desiderano tornare a casa nelle rispettive nazioni dalle quali sono stati costretti a fuggire.
Il Rapporto però non fa solo un quadro a tinte fosche. Ci sono spiragli di speranza in Iraq, per esempio. A giugno 2018, erano 25650 i cristiani tornati a Qaraqosh, nella Piana di Ninive, vale a dire il 50 per cento di quelli che nel 2014 abitavano la città poi messa sotto attacco dal Daesh. E questo nonostante nel 2016 nessuno pensava che l’occupazione islamista sarebbe finita presto. Anche in questo caso, il rapporto denuncia l’indifferenza dei governi occidentali, mentre l’opera di ricostruzione è stata principalmente fornita da organizzati della Chiesa.
Ed è all’Europa che il rapporto lancia il messaggio. Perché –viene sottolineato – occuparsi del diritto alla libertà religiosa “ha anche ulteriori importanti conseguenze per la nostra Europa sui fronti della prevenzione del terrorismo e dell’attenuazione della pressione migratoria”.
Su quest’ultimo tema, viene fatto notare che “difendere la libertà religiosa in molti casi coincide con la difesa del naturale diritto ad abitare la propria patria, dalla quale non si aveva alcuna intenzione di allontanarsi e nella quale si vuole tornare o continuare a vivere. Se le violazioni della libertà religiosa provocano migrazioni forzate, il rispetto del medesimo diritto permette di contenere tali dinamiche, riducendo così la tensione sociale che affligge le Nazioni che ricevono migranti nel proprio territorio”.