Anche la responsabilità del medico è la stessa in ambedue i casi. Nell’eutanasia lui, terminando la vita del paziente alla sua richiesta, viola direttamente il valore della sua vita, che è un valore intrinseco. Nel suicidio assistito il medico presta una collaborazione formale al suicidio, così mostrando di condividere l’intenzione del paziente. Per questo, la collaborazione in se stessa è anche un atto intrinsecamente cattivo, praticamente tanto grave quanto nel caso in cui lui stesso avesse terminato la vita del paziente. Il suicido assistito è per il medico forse psichicamente meno oneroso dell’eutanasia, ma non c’è una differenza morale significante fra i due.
Come per il suicidio, c'è una possibilità di celebrare i funerali, considerando che forse la persona nelle ultime volontà si è pentita?
Riguardo al funerale di un paziente che ha deciso il suicidio assistito o l’eutanasia bisogna distinguere due casi particolari.
Il primo: se un paziente chiede al sacerdote di somministrargli i sacramenti (confessione, unzione dei malati) e - come capita spesso – vuole pianificare già il suo funerale prima di praticare eutanasia e suicidio assistito, il sacerdote non può somministrare i sacramenti e/o pianificare il funerale per tre motivi: si possono ricevere i sacramenti solo quando si è in una buona disposizione, e questo non è il caso quando qualcuno intende opporsi all’ordine della creazione, violando il valore intrinseco della sua vita; chi riceve i sacramenti mette la sua vita nelle mani misericordiosi di Dio, ma chi termina o faccia terminare la propria vita vuole prendere la vita nelle proprie mani, il che contrasta una dedicazione della propria vita alle mani di Dio; il sacerdote, somministrando i sacramenti e/o pianificando il funerale in questi casi, si fa colpevole di scandalo, nel senso che rischia di suggerire che il suicidio o l’eutanasia siano permessi in alcune circostanze.
Non c’è dunque possibilità di celebrare i funerali?
Ci sono alcune circostanze per le quali un sacerdote può celebrare il funerale di chi è morto per suicidio assistito o eutanasia. In principio, non è lecito di fare un funerale nel caso di una persona che si sia suicidata o abbia fatto terminare la vita da un altro, ma da tempi antichi il funerale è stato sempre celebrato, in particolare quando queste hanno terminato o hanno fatto terminare la vita da un altro in una situazione di depressione o di un’altra malattia psichiatrica. In questi, infatti, casi la libertà di loro è spesso diminuita, che per cui la terminazione di vita non è un peccato mortale. Questo è una situatine in cui la responsabilità è diminuita. In modo prudente un sacerdote deve giudicare se si tratti di una libertà diminuita, nel quale caso può fare la funerale della persona coinvolta.
Le legislazioni tendono sempre più ad inserire il suicidio assistito tra le possibilità, e si tratta di un tema cruciale oggi. Cosa può fare la Chiesa per combatterlo?
La Chiesa deve annunciare l’ordine della creazione che comprende la legge morale naturale. Dio ha creato l’essere umano a sua immagine nella sua totalità, anima e corpo. Il Concilio Vaticano II (Gaudium et spes n. 14) chiama l’essere umano “unità di anima e di corpo”. L’essere umano non è solo anima e non solo corpo, ma è anima e corpo. Il corpo è quindi una dimensione essenziale dell’uomo e partecipa nel valore intrinseco della persona umana. Dio e coloro che sono stati creati a sua immagine sono un valore intrinseco, cioè un fine in se, e mai solo un mezzo per raggiungere un fine. Questo vale anche per il corpo umano. Perciò non è lecito di sacrificare la vita umana per finire la sofferenza.
Ci sono delle particolari risposte al dibattito?
Una risposta positiva è la cura palliativa, che la Chiesa ha raccomandato numerose volte e sta ancora raccomandando molto spesso; parecchi gruppi di cristiani e religiosi si impegnano a offrire delle cure palliative in centri specializzati, che sono comunità di professionisti, volontari e famigliari; la cura palliativa, dirigendosi alla persona umana nella sua totalità, comprende delle cure mediche, psicologiche, sociali e pastorali. Inoltre, bisogna fare qualcosa contro la solitudine. Le nostre parrocchie sono sesso delle comunità accoglienti in cui la gente ha dei legami sociali l’uno con l’altro e si prende cura a vicenda. Ma nella società secolare iper individualista odierna la persona è spesso da sola. C’è una solitudine enorme nella nostra società occidentale. La Chiesa stimola a formare delle comunità, a non lasciare le persone, soprattutto le persone che soffrono, da sole. Una persona che vive nella solitudine e cui mancano l’attenzione e la cura di un prossimo, è molto meno in grado di sopportare la sofferenza. Inoltre, la Chiesa annuncia una spiritualità cristiana, una fede vissuta, che implica anche che si può unirsi con il Cristo sofferente e portare la propria sofferenza insieme con lui, per cui non si è mai da soli.
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