Città del Vaticano , lunedì, 12. dicembre, 2016 9:00 (ACI Stampa).
Non c’erano le notizie urlate, le grandi contrapposizioni montate sui media. C’era il gusto della notizia, c’erano anche le fughe di documenti, ma c’era anche un senso del mestiere diverso. Cosa abbia cambiato tutto, è da capire. Forse è stata l’eccessiva spettacolarizzazione dell'informazione. Forse il fatto che i giornalisti hanno preso un’altra strada, perché il mondo va più veloce e non vuole fermarsi a pensare. Oppure, più banalmente, la combinazione delle due cose. Sta di fatto che un “Vaticano sottovoce” come quello che raccontava Benny Lai sembra ormai una utopia lontana.
Lo era già per Benny Lai. Quando ci ha lasciato, esattamente tre anni fa, continuava a parlare del “suo” Vaticano, che contrapponeva alla nuova stagione, cui aveva assistito con la rassegnazione di chi assiste ad una mutazione genetica senza poterci fare nulla. Come il suo primo libro, “Vaticano sottovoce”, del 1961, era una dichiarazione di poetica, così la sua autobiografia, in realtà un diario ragionato e raccolto nel corso degli anni da vaticanista, diceva già tutto dal titolo: “Il mio Vaticano”.
La prospettiva del Vaticano sottovoce era quella che più si addiceva a Benny Lai. Era la prospettiva di colui che – proveniente da un ambiente prettamente laico, e generalmente scettico di natura – rifiutava le mere notizie ufficiali, voleva andare oltre, voleva capire. Ma lo voleva fare con rispetto, ascoltando umori e tastando sfumature, raccontando fino in fondo i caratteri umani delle persone cui si approcciava, e a partire da quei caratteri dedurre i dettagli, ricomporre i pezzi. Non c'era solo il fatto: c'era soprattutto il modo in cui il fatto era avvenuto. Il gusto per lo scoop non riguardava, per lui, il dare una notizia per primo. Piuttosto – diceva – “è importante raccontare come nascono le cose”.
La sua analisi partiva dall'osservazione attenta dei tipi umani. E questa osservazione partiva dagli occhi. Paolo VI aveva “quegli occhi che si ritraevano quando ti guardavano”, Giovanni XXIII “quegli occhi larghi di sorriso”, e via dicendo. Poteva fare il ritratto di una persona leggendone lo sguardo.
Ci si potrebbe dunque chiedere cosa dicevano di Benny Lai i suoi occhi. Ecco, quegli occhi azzurri e profondi erano occhi che sorridevano di curiosità. Che si aprivano di fronte alle persone, sebbene poi lo sguardo fosse accigliato, e i modi a volte “un po’ spicci”, come li definiva lui. Ma tutto questo contribuiva a farne una persona sincera, e sinceramente interessata a quello che aveva di fronte.