Ma, dopo Casaroli, questa Ostpolitik era rimasta una scuola buona per tutte le stagioni, applicata anche ad altri scenari internazionali, e soprattutto applicata in una realtà che non era più quella che aveva preceduto la caduta del Muro di Berlino. La fede era diventato un attore tra i tanti, non si poteva dare più per scontato. La verità era qualcosa che andava cercato, sempre e comunque.
Ed ecco che, divenuto Papa, Benedetto XVI segna la svolta, ancorando le posizioni della Santa Sede sulla verità a partire proprio dal suo primo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace.
La sua critica al relativismo, portata avanti con convinzione e pacatezza durante gli anni da professore, da vescovo di Monaco, da prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, si può trovare in tutti i suoi discorsi.
A Ratisbona, nel 2006, la sua lezione all’università crea moltissime polemiche. Ma è perché sono in pochi a rendersi conto che tutto è cambiato. Che ormai non ci si può più nascondere, che si deve cercare la verità con argomenti di ragione. Mentre l’Occidente continua ad attaccare il Papa, in Medioriente si accorgono che una nuova via di dialogo è possibile. Nasce da lì, la lettera dei 138 musulmani, che porterà ad un incontro bilaterale in Vaticano.
La ricerca della verità diventa fondante anche nel rapporto – sempre difficile – con la Chiesa di Cina. Una lettera del Papa nel 2007 detta le condizioni per ricondurre all’unità – nella fedeltà di tutti a Roma e nell’accordo con le autorità dello Stato – i cattolici in Cina, sanando la frattura tra la Chiesa ufficiale e quella clandestina. Poi, nel 2008, il Papa chiama il cardinale Zen, uno dei più battaglieri vescovi cinesi, a scrivere le meditazioni della via Crucis del Venerdì Santo. E, in un momento in cui le relazioni sembrano diventare ancora più difficili, il Papa crea cardinale John Tong, il successore di Zen, un uomo equilibrato che sa combattere il regime con argomenti di ragione.
Ma è tutta una nuova visione del mondo diplomatico che ha portato Benedetto XVI a puntare più sulla solidità del diritto che sulla leggerezza della diplomazia. Emblematica la scelta nel 2011 di nominare nunzio apostolico in Irlanda un non diplomatico, l’arcivescovo Charles J. Brown, proveniente dalle file della Congregazione della Dottrina della Fede, per far fronte al dramma degli abusi.
Ancora più emblematica la scelta di nominare Segretario di Stato Tarcisio Bertone, canonista, senza scuola diplomatica alle spalle, che subito ha detto che avrebbe voluto più che altro essere un “Segretario di Chiesa”.
La fede, in fondo, deve avere anche una solida struttura che la tuteli. Così, anche la battaglia per la libertà religiosa si basa – oggi – sul piano del diritto internazionale, su solide basi, e non sulla ricerca di concessioni o di aperture per le minoranze, o di tolleranza per la presenza delle religioni. È una battaglia che si porta avanti in termini di ragione.
Benedetto XVI ha parlato spesso del ruolo della Santa Sede nelle sue conferenze stampa in aereo, e questo si comprende bene rileggendole grazie ad un utile strumento di lavoro, il libro “Sull’aereo di Papa Benedetto” (LEV) di Angela Ambrogetti.
Quando, alla vigilia del secondo viaggio in Germania del 2011, gli chiedono del Medio Oriente scosso dalle Primavere Arabe, sottolinea che “naturalmente non abbiamo alcuna possibilità politica, e non vogliamo alcun potere politico. Ma noi vogliamo appellarci ai cristiani e a tutti coloro che si sentono in qualche modo uniti alla Santa Sede e interpellati da essa, affinché vengano mobilitate tutte le forze che riconoscono che la guerra è la peggiore soluzione per tutti”.
E quando, mentre viaggia verso il Brasile nel 2007 per la Conferenza di Aparecida, gli chiedono della Teologia della Liberazione, Benedetto XVI sottolinea piuttosto che “adesso la questione è come la Chiesa debba essere presente nella lotta per le riforme necessarie, nella lotta per condizioni più giuste di vita. Su questo si dividono i teologi, in particolare gli esponenti della ideologia politica”.
I temi diplomatici sono però legati a due temi che sono preponderanti:
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quello dell’annuncio della Parola in maniera positiva (più volte, Benedetto XVI sottolinea che non si devono vedere solo le cose brutte, ma anche quelle belle, e che si deve promuovere il Vangelo a partire dai suoi valori positivi); e quello della verità, il vero tema del pontificato di Benedetto XVI, che in fondo è il vero tema del cristianesimo.
Questo amore per la verità comporta anche dei rischi. A Colonia, nel 2005, Benedetto XVI entra in sinagoga. È un evento storico. Ma il Papa non si nasconde dietro un dito: “Se il dialogo vuole essere sincero, non deve passare sotto silenzio le differenze esistenti o minimizzarle”.
Benedetto XVI è stato fermo nella verità, eppure consapevole di quello che aveva scritto, da teologo, nel suo volume più celebre, “Introduzione al cristianesimo”: “Chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell’oggi può davvero avere l’impressione di essere un pagliaccio, oppure addirittura un resuscitato da un vetusto sarcofago, che si presenta al mondo odierno avvolto nelle vesti e nel pensiero degli antichi, e nell’epoca nostra e pertanto nell’impossibilità di comprendere gli uomini dell’epoca nostra e di essere compreso da loro”.