Canberra , venerdì, 15. giugno, 2018 9:00 (ACI Stampa).
In Australia, il segreto della confessione diventa reato. O, perlomeno, lo diventa nel territorio di Canberra, la capitale dello Stato oceanico, che per primo ha adottato una legge che rende perseguibile il sacerdote che non riporta casi di abuso sui minori anche qualora ne sia venuto a conoscenza durante la confessione.
La legge è la prima applicazione delle 85 raccomandazioni della Royal Commission, la commissione incaricata dal governo australiano di indagare le risposte delle istituzioni alla piaga degli abusi sessuali su minori. Tra queste raccomandazioni c’era, appunto, l’idea di rendere reato la mancata denuncia da parte di un sacerdote di molestie e violenze su minori di cui viene a conoscenza mentre sta impartendo il Sacramento della Confessione.
Non è la prima volta che il Sacramento della Confessione viene messo sotto attacco. Nel 2011, al culmine della crisi degli abusi tra il clero irlandese, Enda Kenny, allora “Taoiseach” (Primo Ministro) sostenne che “i sacerdoti dovrebbero avere un obbligo di legge di riportare i casi di abuso appresi in confessione”.
A livello internazionale, si era andati anche oltre: nel 2014, il Comitato ONU per la Convenzione sui Diritti del Bambino – vale a dire, il Comitato che valuta come le convenzioni siglate vengono applicate dagli Stati aderenti nel loro territorio – arrivò addirittura a fare pressioni sul diritto canonico, non distinguendolo dalle leggi dello Stato di Città del Vaticano, che erano invece oggetto della Convenzione, e criticando “il codice del silenzio vaticano”, che impedisce “pena scomunica” ai membri del clero di andare a denunciare i casi di cui vengono a conoscenza alle autorità.
Il caso australiano è, insomma, la prima applicazione concreta di una pressione internazionale che fa leva sugli scandali che toccano e hanno toccato la Chiesa Cattolica per andarne a contestare la sovranità.