Città del Vaticano , venerdì, 27. luglio, 2018 14:00 (ACI Stampa).
L’idea che la cura del Patrimonio artistico di uno stato sia un traguardo tutto contemporaneo è spesso molto diffusa. Ma a smentirlo c’è la storia dello Stato Pontificio. Già all’inizio dell’ 800 c’erano diverse figure di rilievo nella amministrazione papalina che si occupavano della tutela dei beni. Non tanto come curatori dei musei, studiosi e ricercatori, ma proprio con ruoli “politici” e statali.
Come scrive Maria Piera Sette nel volume “Antico, conservazione e restauro a Roma nell’età di leone XII” edito tra i Quaderni regionali delle Marche, “fra gli Stati preunitari, quello pontificio detiene sicuramente un posto di rilievo per i provvedimenti che a inizio secolo si occupano primariamente della vigilanza sui beni artistici”.
E’ addirittura il Cardinale Camerlengo, insieme all’ ispettore di Belle Arti e al commissario delle Antichità affiancato da assessori che si occupano delle antichità.
Tutto inizia da un chirografo di Pio VII sulla vigilanza. E’ il 1802. Ma si dovrà arrivare all’editto del cardinale Bartolomeo Pacca del 7 aprile 1820 per avere una struttura articolata. Saranno proprio i cardinali legati o di prelati delegati a curare un inventario dei beni, ad attuare la vigilanza sui restauri e sulle attività di scavo con una centralizzazione dettata dalla riforma amministrativa abbozzata nel 1824 e completata con il motu proprio del 1827.
Il periodo è propizio al cambiamento di paradigma, dal collezionismo di antichità allo studio delle stesse antichità. Così “accanto a catalogazioni di pura erudizione e raccolta, affiora la volontà di tracciare una storia valutativa delle presenze artistiche.