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Australia, primo attacco al segreto della confessione

Royal Commission | La targa della Royal Commission, all'ingresso dei suoi uffici | PD Royal Commission | La targa della Royal Commission, all'ingresso dei suoi uffici | PD

In Australia, il segreto della confessione diventa reato. O, perlomeno, lo diventa nel territorio di Canberra, la capitale dello Stato oceanico, che per primo ha adottato una legge che rende perseguibile il sacerdote che non riporta casi di abuso sui minori anche qualora ne sia venuto a conoscenza durante la confessione.

La legge è la prima applicazione delle 85 raccomandazioni della Royal Commission, la commissione incaricata dal governo australiano di indagare le risposte delle istituzioni alla piaga degli abusi sessuali su minori. Tra queste raccomandazioni c’era, appunto, l’idea di rendere reato la mancata denuncia da parte di un sacerdote di molestie e violenze su minori di cui viene a conoscenza mentre sta impartendo il Sacramento della Confessione.

Non è la prima volta che il Sacramento della Confessione viene messo sotto attacco. Nel 2011, al culmine della crisi degli abusi tra il clero irlandese, Enda Kenny, allora “Taoiseach” (Primo Ministro) sostenne che “i sacerdoti dovrebbero avere un obbligo di legge di riportare i casi di abuso appresi in confessione”.

A livello internazionale, si era andati anche oltre: nel 2014, il Comitato ONU per la Convenzione sui Diritti del Bambino – vale a dire, il Comitato che valuta come le convenzioni siglate vengono applicate dagli Stati aderenti nel loro territorio – arrivò addirittura a fare pressioni sul diritto canonico, non distinguendolo dalle leggi dello Stato di Città del Vaticano, che erano invece oggetto della Convenzione, e criticando “il codice del silenzio vaticano”, che impedisce “pena scomunica” ai membri del clero di andare a denunciare i casi di cui vengono a conoscenza alle autorità.

Il caso australiano è, insomma, la prima applicazione concreta di una pressione internazionale che fa leva sugli scandali che toccano e hanno toccato la Chiesa Cattolica per andarne a contestare la sovranità.

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Passata senza emendamenti, la legge sarà ora oggetto di negoziato tra l’Arcidiocesi di Canberra e Goulbourn e il governo, che dovranno definire le prassi.

L’arcivescovo Christopher Prowse di Canberra lo ha detto chiaro, con un articolo sul Canberra Times del 7 giugno 2018: sì all’estensione delle procedure di denuncia per autorità e organizzazioni, anche cattoliche, ma no, nel modo più assoluto, a qualunque richiesta di violazione del sigillo della confessione, perché questa legislazione – tra l’altro – metterebbe a rischio la stessa libertà religiosa.

Si tratta però solo di un primo passo, perché ad aprile Gladys Bereijklian, primo ministro del Nuovo Galles del Sud, ha chiesto che la questione del sigillo della confessione si affrontata dal Consiglio dei Governi Australiani (l’Australia è una federazione di sei stati) e non sia solo oggetto di decisioni locali come quella del territorio della capitale Canberra.

La legge è stata approvata lo scorso giugno dell’Assemblea Legislativa del Territorio della Capitale Australiana, ed in pratica estende la denuncia obbligatoria di abusi sui minori anche alla Chiesa e alle attività della Chiesa, incluso il confessionale. La legge è stata supportata da tutti i partiti politici.

Inizialmente, l’arcivescovo Prowse era stato invitato ad incontrarsi con il procuratore generale per discutere l’importanza della protezione dei bambini e del sigillo sacramentale, ma poi il dibattito parlamentare è iniziato prima che l’incontro avesse luogo. “Una perdita di opportunità per il dialogo”, ha sottolineato l’arcivescovo Prowse.

Secondo la nuova legge, i casi di possibile abuso vanno segnalati entro 30 giorni.

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Il 13 giugno, la Conferenza Episcopale Australiana ha diffuso un comunicato in cui sottolineava il suo impegno nella difesa dei minori, ma allo stesso tempo metteva in luce con forza che "la Chiesa cattolica non vede il sacramento del sigillo sacramentale come incompatibile con la preservazione della sicurezza dei bambini".

La Chiesa - si legge nel comunicato - "vuole misure che creino ambienti sicuri per i bambini" e "non c'è alcuna prova incontrovertibile che suggerisca che l'abolizione legale del sigllo della confessione aiuterà in tal senso". 

Nel comunicato, la Chiesa di Australia rivendica il suo impegno, cominciato già durante il lavoro della Royal Commission, con lo stabilimento o il rafforzamento di uffici dei salvaguardia dei bambini in tutto il territorio, il lavoro sugli standard di tutela e l'adesione, per prima tra gli enti non governativi, allo schema di risarcimento nazionale, da sempre richiesto della Chiesa, che è "fermamente impegnata a risarcire le vittime che sono state abusate in ambienti cattolici".