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Pontificie Opere Missionarie, l'agricoltura per finanziare le missioni

Padre Andrew Small | Padre Andrew Small visita uno dei progetti di Missio in Africa | http://propfaith.blogspot.it/ Padre Andrew Small | Padre Andrew Small visita uno dei progetti di Missio in Africa | http://propfaith.blogspot.it/

Dal 28 maggio, le Pontificie Opere Missionarie si riuniscono per la loro assemblea plenaria. Sono quattro, nate quasi due secoli fa (la Pontificia Opera Infanzia Missionaria ha compiuto il 175esimo anniversario, ed è stata salutata da Papa Francesco all’Angelus del 20 maggio) e hanno lo scopo di “promuovere lo spirito missionario universale nel popolo di Dio, dando impulso alla cooperazione, per armonizzare le forze missionarie e garantire una equa distribuzione degli aiuti finanziari per sostenere le missioni della Chiesa nei Paesi più arretrati.

Ci sono più di 1500 diocesi nel mondo che ricevono dalle Pontificie Opere Missionarie aiuto per la loro missione di evangelizzazione. Il problema del supporto finanziario è sempre più stringente. Per questo, le Pontifical Mission Societies degli Stati Uniti, parte di questa galassia di opere missionarie, hanno messo a punto un progetto finanziario basato sull’agricoltura. Lo spiega ad ACI Stampa padre Andrew Small, Oblato di Maria Immacolata, dal 2011 a capo delle Pontifical Mission Societies, che uniscono la Società per la Propagazione della Fede, l’Associazione della Santa Infaznia, la Società di San Pietro Apostolo e l’Unione Missionaria di Preti e Religiosi.

Padre Small, in cosa consiste il progetto “Agriculture initiative survey”?

Si tratta di un progetto nuovo, che nasce dalla domanda: come finanziamo la Chiesa nelle missioni? Nel 1800, gli Stati Uniti erano terra di missione, cento anni dopo non era più terra di missione dipendente, ma un territorio che inviava soldi alle missioni nel mondo. Con il tempo, la nozione di missione è diventata più personalizzata e meno territoriale.

In che senso?

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I cattolici non fanno donazioni alla Chiesa in senso generico. Fanno donazioni per cose concrete, per le strutture e i seminari, per le attività concrete dei missionari. E così l’obiettivo è diventato quello di decentralizzare, in modo da meglio supportare le oltre 11 mila diocesi dipendenti dalle missioni.

Quando si è avuto questo passaggio?

È un passaggio avvenuto prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. San Giovanni XXIII ha poi chiamato la Chiesa ad essere rilevante nel mondo, e così le “charities” hanno avuto un ruolo ancora più importante. Le organizzazioni della Chiesa si sono allineate agli standard di altre organizzazioni professionali, con tutte le difficoltà, e con il limite di non poter accedere a fondi pubblici, per rimanere nella vocazione di promuovere la fede cattolica.

Se non si può accedere ai fondi, come ci si finanzia?

Ci si basa sul fundraising, sulla raccolta di fondi. Ma è stato a quel punto che ci siamo posti la domanda di come mantenere il sostegno finanziario in maniera strutturale. E abbiamo cercato delle strade per rispondere, con un modello sostenibile per noi come Chiesa. Siamo così arrivati alla conclusione di creare ed esportare un modello economico di cooperazione. Un modello genuinamente nuovo, pratico, etico, sostenibile.

Da qui, l’idea di destinare le risorse alla agricoltura…

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Il tema del cibo è cruciale: tutti dobbiamo mangiare. C’è un grande interesse sul cibo, e così ci siamo focalizzati sull’alimentazione. Da qui l’Agricultural Initiave Survey, finanziata dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti attraverso le Pontifical Mission Societies. Finanziamo, in pratica, piccole imprese agricole in Paesi in Via di Sviluppo. Lo facciamo collaborando con le Università Cattoliche locali, e con i vescovi, senza creare una Organizzazione Non Governativa. Una volta individuati i soggetti, facciamo 4 mesi di corso intensivo in management finanziario, in modo che ogni ente legato alla Chiesa e interessato possa essere in grado da solo di richiedere il social investment fund. In questo modo, evitiamo anche alle Congregazioni religiose di legarsi ad una banca locale.

Dove si svolgono le vostre attività?

Per ora, in Kenya, Uganda, Zambia e Malawi. Al momento ci sono 2 milioni di dollari investiti in prestiti.

Cosa si fa con quanto viene prodotto?

Molte cose: facciamo da mangiare ai seminaristi locali, riducendo così la necessità di comprare e vendere al mercato.

A quanto ammontano gli interessi del prestito?

Eroghiamo il prestito con un tasso di interesse dell’8 per cento, attraverso un protocollo di intesa con le Conferenze Episcopali. I fondi passano attraverso il nunzio apostolico.

C’è possibilità di allargare il progetto?

Crediamo siano le fondazioni cattoliche ad essere chiamate ad essere maggiormente alleate delle missioni, con i vari investimenti che hanno in essere. Vorremmo mettere insieme un “Social Impact Fund” per tutte le fondazioni cattoliche. In generale, le fondazioni cattoliche investono nel mercato, fanno profitti, e poi elargiscono i profitti in donazioni. Ma è davvero questa la via? L’idea è quella di fare in modo che le Chiese locali siano autosostenibili, indipendenti dalle donazioni. Tutto quello che facciamo è tracciato, trasparente.

Quanto è importante poterlo fare in un contesto di Chiesa?

Fondamentale. Non dobbiamo spiegare chi siamo quando presentiamo il progetto nelle diocesi. Siamo legati alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, la nostra efficacia viene dal fatto che siamo parte della Chiesa, abbiamo tutti la stessa identità.