A tutti questi significati, Bartolomeo ne aggiunge un altro. Perché – ricorda – anche a Costantinopoli, la nuova Roma, c’era una chiesa “importantissima” dedicata ai Dodici Apostoli, che era seconda per bellezza e importanza solo alla Basilica di Santa Sofia, ma che “per la sua posizione rivestiva carattere di centralità al punto di esservi sepolto per primo il Santo imperatore Costantino il Grande”, e fino al XV secolo ospitava imperatori e patriarchi “come anche tante sante reliquie, come il capo di Sant’Andrea Apostolo, di San Luca evangelista e di San Timoteo, i resti di San Giovanni Crisostomo e di altri padri della Chiesa santi e martiri”.
Quella chiesa – ricorda Bartolomeo – fu distrutta nel 1462, ma si dice fu il modello cui ci si ispirò per la Basilica di San Marco a Venezia.
L’omelia del Patriarca si sofferma in particolare su Filippo, introdotto nel Vangelo di Giovanni subito dopo la resurrezione di Lazzaro. A Filippo viene chiesto di vedere Gesù, e Filippo viene preso da “intimo momento di stupore”, tanto che corre a chiamare Andrea e insieme “vanno da Gesù per udire dalle sue parole la glorificazione del padre”.
Questo sentimento di intimo stupore – nota Bartolomeo I – caratterizza Filippo, ma anche tutti gli apostoli. Perché è “lo stupore che offre la relazione viva con Dio”, che permette di “lasciarsi pervadere dalla koinonia dell’amore trinitario”.
Il Patriarca Ecumenico aggiunge: “Questo stupore per le cose di Dio, sempre più pregnante nella Chiesa nascente, si fa incontro, dialogo e comunione nel Concilio degli apostoli a Gerusalemme, prosegue nella storia della Chiesa in Oriente come in Occidente, si manifesta in tutta la sua tradizione, che non è una somma di postulati imparati a memoria, ma una esperienza vissuta”.
Legame di tutto è l’amore, la necessità di comunione e lo stupore, tre caratteristiche – dice Bartolomeo – che “devono ancora essere predicazione apostolica dei cristiani di oggi”.
Il Patriarca chiede se siamo capaci ancora di “stupirci delle cose di Dio, della fragilità dell’uomo e allo stesso tempo della centralità dell’essere umano?”
Quindi, nota che “la maggioranza degli apostoli ha vissuto il martirio di sangue e purtroppo ancora oggi in numerose aree del mondo le nostre Chiese e i nostri cristiani vivono il martirio del sangue, vittime dell’arroganza fondamentalista che fa di Dio un idolo della mancanza di relazione e di comunione e pertanto di amore”.
Ma - ammonisce – “anche nelle società cosiddette cristiane esiste un nuovo martirio, frutto della mancanza di stupore, che è il martirio della indifferenza, di una società post religiosa, della aridità spirituale”.
Perché ci vuole relazione, dato che “il chicco che cade in terra, ma rimane solo, non produce frutto”. Così come “i Santi Apostoli sono i testimoni primi”, ognuno di noi “deve essere primo nella testimonianza apostolica, e per questo siamo venuti dalla Chiesa di Oriente a stupirci nella Chiesa di Occidente”.
Uno stupore che nasce dall’incontro, che si vive “ogni volta che ci troviamo con il nostro fratello vescovo di Roma”, ma anche quando ci “troviamo tra noi”, perché “non possiamo non stupirci delle meraviglie che Dio opera ogni giorno in ognuno di noi”.
C’è la certezza che “il dialogo arricchisce, fa superare le divergenze, fa comprendere il pensiero dell’altro, e nulla toglie a chi entra in dialogo”, motivo per cui “non possiamo che stupirci del progredire del dialogo teologico nelle nostre Chiese e delle relazioni esistenti”.
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L’invito finale è quello di dare una testimonianza concreta, vissuta, perché “relazione e comunione ci fanno camminare insieme per parlare al mondo, ci offrono la possibilità di annunziare che Gesù è morto e risorto per ognuno di noi, e perciò di dire all’uomo di oggi afflitto da fondamentalismi religiosi, economici e sociali e afflitto da uno sfruttamento insensato dell’ambiente naturale a favore di pochi e a scapito di molti, che c’è ancora speranza perché il chicco di grano produca molto frutto”.
Il frutto è l’amore, che diventa tangibile sulla croce. Anche alla croce si deve guardare con stupore – conclude San Bartolomeo – come fece San Francesco, il quale “dello stupore davanti al disegno di Dio e al crocifisso di San Damiano ha fatto una bandiera”, tanto che lo stupore lo ha “portato alla relazione fraterna con i suoi frati, con ogni uomo, con ogni essere vivente con lo stupore davanti alla bellezza del creato. È stato un uomo di comunione fino a spogliarsi di tutto per l’amore di Dio, rassicurando in Cristo come uomo di pace che porta e dà pace”.