Roma , giovedì, 17. maggio, 2018 18:00 (ACI Stampa).
Alcuni soldatini e un cuore blu sulla piccola bara bianca e, sul tetto del carro funebre, due scritte composte con i fiori che dicevano ‘guerriero’ e ‘nostro eroe’: in questo modo i genitori di Alfie Evans, morto il 28 aprile scorso all’ospedale Alder Hey di Liverpool, dopo aver respirato oltre quattro giorni da solo dopo il distacco del ventilatore, hanno dato l’ultimo addio al loro figlio con un funerale a cui sono stati ammessi soltanto parenti stretti e gli amici più cari, ma alla fine partecipato da molta gente che ha riempito le strade vicino a Goodison Park, come ha detto l’ispettore della polizia di Liverpool, Chris Gibson.
Partendo proprio dalla vicenda di Alfie alla neo presidente del Movimento per la Vita, Marina Casini Bandini, bioeticista all’Istituto di Bioetica e Medical humanities dell’Università Cattolica di Roma, abbiamo chiesto di spiegarci il confine tra cura ed accanimento terapeutico:
“L’accanimento terapeutico comporta un attento esame ‘al letto del paziente’ ed è quella situazione in cui un trattamento risulta tecnicamente sproporzionato (in base al giudizio medico) e straordinario (secondo il prudente giudizio del paziente nel senso che non deve comportare per lui un pesante aggravio fisico o psicologico). Si faccia attenzione: il doveroso rifiuto di accanimento terapeutico non deve essere mai un alibi per giustificare scelte eutanasiche. Ciò che è invece, clinicamente proporzionato e ordinario rientra nella cura.
Se poi pensiamo alla cura nell’accezione del ‘to care’, cioè come ‘prendersi cura’, allora questa deve essere mantenuta sempre come espressione della dignità della vita umana indipendentemente dalle condizioni concrete in cui essa si trova. Nel caso di Alfie oltre al profilo eutanasico vi è un aspetto ancora più grave: lo Stato si è sostituito ai genitori, pretendendo di ergersi a padrone della vita e della morte, probabilmente anche per ragioni economiche”.
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