La Santa Sede, rappresentata dall’arcivescovo Ivan Jurkovic, Osservatore Permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra, ha sottolineato nel suo intervento che la “non proliferazione il disarmo non sono solo responsabilità etiche, ma anche obblighi morali e legali verso tutti i membri della famiglia umana”.
Ancora una volta, la Santa Sede ha sottolineato che “le armi di distruzione di massa, e in particolare le armi nucleari, creano un falso senso di sicurezza”, perché l’illusione della pace basata sulla paura è illusorio, dato che “la gente desidera ferventemente la vera pace, sicurezza e stabilità, che è all’opposto della paura”.
Tra le misure richieste, quelle di permettere all’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica – di cui la Santa Sede è membro fondatore – di ripristinare il suo importante ruolo di verifica, che è “così essenziale per costruire la fiducia e per rinforzare pace e sicurezza” e allo stesso tempo può portare ad una vera pace.
La Santa Sede ha anche lodato all’iniziativa di riconciliazione nella penisola coreana, che è una buona “testimonianza che le preoccupazioni sulla sicurezza così tanto citate come un pretesto per rallentare il progresso sul disarmo nucleare devono essere superate senza ulteriore ritardo”.
E questo proprio considerata la situazione mondiale, in particolare nella “attuale situazione” in cui crescono “le tensioni internazionali e la stabilità del Medio Oriente”, dove è vitale che si stabilisca “una zona libera da armi nucleari e di distruzione di massa nella regione”, secondo lo spirito del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, e rafforzato dall’entrata in vigore del Trattato su Bando Generale dei Test e il Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari, che la Santa Sede ha appoggiato e ratificato.
Il tema della zone libere da Armi Nucleari è centrale per la Santa Sede, perché queste “giocano un ruolo importante nel promuovere pace e stabilità a livello nazionale e internazionale”.
Canada, approvato l’invito al Papa a visitare il Paese per chiedere scusa
Con voto unanime, il Parlamento canadese ha approvato una mozione che chiede a Papa Francesco di andare in Canada a chiedere scusa per gli abusi che sono avvenuti nelle “scuole residenziali” canadesi, che erano sotto il controllo della Chiesa.
Il voto è avvenuto l’1 maggio, e fa seguito allo stesso invito che il premier canadese Justin Trudeau aveva personalmente rivolto a Papa Francesco quando era stato in visita da lui un anno fa.
In realtà, sulla questione delle scuole residenziali non c’è una responsabilità diretta della Chiesa cattolica. Benedetto XVI si era detto “dispiaciuto” per l’avvenuto, ma questo non è bastato.
Addirittura, una prima versione della mozione chiedeva addirittura ai vescovi di “portare il Papa in Canada”, ma è stata modificata perché sembrava una interferenza dello Stato sulla Chiesa.
La Commissione Verità e Riconciliazione istituita per accumulare la vicenda ha sottolineato che le “politiche del governo del Canada e della Chiesa cattolica del tempo hanno costituito genocidio”, anche se il rapporto denunciava il governo, e non la Chiesa, per aver portato avanti una politica di “genocidio culturale”.
Il nunzio austriaco critica i vescovi tedeschi
Il tema dell’intercomunione non è stato il solo a generare controversie in Germania. Negli scorsi giorni, una decisione del governo bavarese di appendere croci nei luoghi pubblici era stata critica dal Cardinale Reinhard Marx, presidente della Conferenza Episcopale Tedesca.
La cosa non è passata inosservata. L’arcivescovo Peter Zurbriggen, nunzio apostolico in Austria, ha detto in una conferenza lo scorso 1 maggio all’abbazia di Heiligenkreuz che la reazione di qualche membro del clero alla decisione è “inaccettabile”, senza fare riferimenti diretti.
“Come nunzio e rappresentante del Papa – ha detto – sono rattristato e provo vergogna del fatto che, quando le croci sono erette in una nazione vicina, sono proprio preti e vescovi a criticare la decisione”.
Repubblica Centrafricana, l’appello del Cardinale Nzapalainga
Un appello per la concordia nazionale è stato lanciato dal Cardinale Dieudonne Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, dopo gli scontri avvenuti nella Repubblica Centrafricana contro la Chiesa Cattolica di Nostra Signora di Fatima di Bangui.
L’attacco è avvenuto lo scorso 1 maggio, ed è stato attribuito a un gruppo di confessione musulmana. Il numero delle vittime è salito a 26. Tra loro, anche un sacerdote.
Il Cardinale Nzapalainga ha invitato a “superare il male con il bene. Dobbiamo vincere proponendo il bene, che significa amore, perdono e riconciliazione. Che le persone non cedano alla collera e alla rappresaglia, né alla confusione. Musulmani e cristiani, siamo un solo popolo, dobbiamo lavorare mano nella mano per ricostruire la Repubblica Centrafricana”.
L’attenzione della Santa Sede nel Paese è altissima. Papa Francesco ha viaggiato in Repubblica Centrafricana il 30 novembre 2015, volendo simbolicamente aprire lì la prima Porta Santa dell’Anno Santo Straordinario della Misericordia che stava per iniziare.
Il presidente francese in Vaticano a fine giugno?
L’indiscrezione rimbalza dalla Francia: il presidente francese Emmanuel Macron potrebbe visitare Papa Francesco presto, già alla fine di giugno. Dopo aver stabilito un canale di contatto con il mondo cattolico con la conferenza al College des Bernardins di Parigi, il presidente Macron programma il viaggio a Roma e il dialogo con Papa Francesco.
Ma non solo. Per antica consuetudine, il presidente di Francia è primo ed unico canonico d’onore di San Giovanni in Laterano. La tradizione risale ad Enrico IV, ed è stata passata dalla dinastia reale ai presidenti francesi. Già lo scorso novembre, il presidente Macron aveva detto che intendeva andare a ricevere il titolo a Roma.
Tra i possibili temi sul tavolo tra il Papa e il nuovo presidente francese, anche quello degli Stati Generali della Bioetica. Un dibattito cui i vescovi francesi contribuiscono attivamente, e del quale hanno discusso anche presso la Pontificia Accademia per la Vita.
COMECE, rapporto su Balcani e integrazione europea
Il prossimo 7 maggio, si terrà a Sofia il summit UE-Balcani occidentali, 15 anni dopo il summit di Salonicco che aveva aperto ad una prospettiva europea per i Paesi balcanici.
Sul tema, è da segnalare l'intervento della COMECE (la Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea).
Intitolato "Integrazione Europea dei Balcani occidentali - una promessa di pace e una fonte di sviluppo?", il documento ricorda che "la Chiesa cattolica sostiene il progetto di integrazione europea della regione dal suo primo inizio”, e nota che "grazie alla loro ricca eredità culturale e storica, i Balcani occidentali sono parte della famiglia europea".
I sei Paesi balcanici cui si fa riferimento sono: Serbia e Montenegro che hanno già avviato i negoziati; Macedonia e Albania, che inizieranno i negoziati una volta avuta la conferma dal Consiglio Ue; Bosnia-Erzegovina e Kosovo che si trovano all’inizio del processo di avvicinamento all’Ue. Non a caso, a più riprese questi leader sono stati recentemente in visita in Vaticano.
Per la COMECE, il punto è "integrare l'intera regione, non singoli Paesi", e il riferimento indiretto è a situazioni particolari, come quella della Bosnia dove a soffrire è soprattutto la minoranza cattolico-croata. Ci vuole "un partenariato equo, globale e responsabile" con un maggiore impegno europeo nella regione per combattere "corruzione e criminalità organizzata", favorire l'indipendenza del sistema giudiziario e rendere trasparenti le finanze pubbliche.
La COMECE ricorda i vantaggi che può avere l'UE dall'acquisire nuovi membri, ma anche quello delle nazioni balcaniche, alle prese con una difficile situazione demografica, l'emigrazione e la disoccupazione giovanile.
Il vero punto è però chiudere con le ferite della guerra, ancora vive. “Senza giustizia non è possibile la riconciliazione e senza riconciliazione, non ci può essere una pace duratura”, afferma la COMECE, che chiede un "ruolo più attivo" dell'Unione Europea.
Ma rivendicano, i vescovi europei, anche il ruolo di Chiese e comunità religiose. D'altronde, la dichiarazione congiunta dei vescovi di Austria e Bosnia Erzegovina di inizio marzo aveve già enfatizzato che il dialogo interreligioso ha la capacità di costruire ponti.