Che è coinciso proprio con la permanenza a Ryadh dell’ex premier libanese Saad Hariri, che ha annunciato le sue dimissioni il 4 novembre quando era in territorio saudita, e lì è rimasto…
La mia visita è stata naturalmente collegata, ma non c’è niente di vero. L’invito, e il periodo della mia visita, è stato deciso prima. Di certo, la particolare situazione ha dato più importanza al viaggio. Ho dovuto anche parlare della questione del ritorno del Primo Ministro in Libano. Le autorità saudite mi hanno fatto capire che loro incoraggiavano il ritorno in libano dell’ex primo ministro, e che non corrispondevano a verità le voci che volevano il primo ministro detenuto, arrestato, o impedito di venire. Mi hanno chiesto di convincerlo a rientrare in patria.
Quindi, durante la sua visita ha parlato anche con Saad Hariri?
Sì, ho avuto l’occasione di parlare con lui. Mi ha confermato che era libero di tornare, e io gli ho proposto di tornare con me, e di andare sia dal presidente della Repubblica che poi insieme in Vaticano per rendere conto alla Segreteria di Stato del suo gesto, perché anche la Segreteria di Stato mi chiedeva sempre della situazione. Mi ha detto che avrebbe dovuto regolare alcune cose, poi mi ha chiamato che sarebbe tornato in due giorni, e in effetti un paio di giorni dopo il nostro incontro si è mosso verso Parigi con la famiglia.
Ma cosa è significato questo storico viaggio a Ryadh?
Rappresenta una grande apertura da parte dell’Arabia Saudita, da parte del re e del principe ereditario. C’è da dire che ci sono grandi rapporti amichevoli tra l’Arabia Saudita e il Libano. In Arabia Saudita c’è una grande comunità libanese, molto rispettata, e il patriarcato e il re hanno avuto molta corrispondenza, tanto che già quattro miei predecessori avevano stabilito dei buoni contatti. Ma io sono il primo ad essere stato invitato. La mia presenza lì ha creato grande apertura a livello di dialogo interreligioso, ma soprattutto a livello di contatti tra la Chiesa e l’Arabia Saudita.
Quale è la situazione della libertà religiosa in Arabia Saudita?
Sinora l’Arabia Saudita non riconosce la possibilità di avere chiese e di praticare il cattolicesimo. I cattolici lo fanno, o nelle ambasciate o nella nunziatura apostolica, ma discretamente. I sauditi sanno e fanno finta di non sapere. Per il momento non è permesso di avere l’esercizio della religione cristiana.
Ha parlato di questo con il principe ereditario?
Ho notato con il principe ereditario che la mia presenza era un segno di grande apertura. Questi ha risposto testualmente: oggi i tempi sono cambiati, non siamo all’inizio dell’islam, ormai l’Islam è sparso nel mondo intero, noi dobbiamo aprirci alle altre culture, alle altre religioni e bisogna avere un altro stile di vita.
Lei cosa ha risposto?
Non sono andato oltre per parlare di Chiesa o non presenza della Chiesa. Ho detto: “Voi avete il vostro centro per il dialogo interreligioso a Vienna, il famoso centro del re Abdallah, il KAICIID (la Santa Sede vi partecipa come Stato osservatore, ndr) e voi esercitate questo dialogo già attraverso questo centro a Vienna”. Era un modo di dire indirettamente che era il caso di avere anche in patria questo dialogo interreligioso.
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Il Libano che ruolo può avere?
Ho spiegato al re che il Libano è un luogo di dialogo, perché lì cristiani e musulmani vivono con uguale dignità, separano religione e Stato, partecipano insieme al potere. Il Libano è un modello. È il luogo migliore per avere il centro del dialogo interreligioso delle religioni, delle culture e delle civiltà.
Cosa è il Libano per i cristiani del Medio Oriente?
Per loro, il Libano rappresenta un faro di speranza a causa di questa convivialità tra cristiani e musulmani, hanno uguaglianza di diritti, c’è sempre speranza che questa corrente possa arrivare un giorno a questi Paesi. Però è venuta la guerra a fare emigrare tanti cristiani, ad avere grande paura. Non facciamo altro che incoraggiarli a rimanere, diciamo loro che siamo qui da 2000 anni. Tutto il Medio Oriente, inclusa l’Arabia Saudita, era cristiana. Una cultura cristiana, che c'era già 600 anni prima dell’Islam. Non possiamo lasciarli così facilmente.
Di certo, la situazione è difficile…
Noi diciamo parole, ma quando ci sono la guerra, la paura, la crisi economica, la diaspora, le parole non bastano. Ciononostante chiediamo a tutti quelli di buona volontà di rimanere sul posto, anziché di venire da noi. Perché quello che sta accadendo distrugge due volte: la prima volta si distrugge la presenza, la seconda volta si distrugge la civiltà e la cultura.