Roma , sabato, 16. settembre, 2017 14:00 (ACI Stampa).
Un uomo dalla profonda spiritualità, che saluta con le mani giunte alla maniera indiana, fa pause per pregare, e con una grande fiducia in Dio: parla per la prima volta in pubblico padre Tom Uzhunnalil, il salesiano rapito il 4 marzo 2016 al termine di un attacco presso la Casa per anziani delle Missionarie della Carità, nello Yemen, che ha causato la morte di 16 persone, tra suore, pazienti e custodi. Solo due sopravvisuti: Suor Sally, la superiora che ha poi raccontato l’attacco, e lui, padre Tom.
Che delle suore non vuole parlare, perché lo commuove fino alle lacrime. “Non fatemi domande su di loro, vi prego accettatelo”, chiede ai giornalisti. È dimagrito di 30 chili, ma è stato comunque nutrito durante la prigionia e persino aiutato nel curare il suo diabete (“mi hanno procurato insulina due o tre volte e mi hanno procurato, in una situazione difficile, di guerra, 230 pillole di metaformina”).
Ha uno spirito vivo, e una grande voglia di parlare. Raccontano che nel convento salesiano in Vaticano dove è stato portato dopo la liberazione non smetta un minuto di cercare un contatto. Dopo 18 mesi di pochissima conversazione (“io non capisco l’arabo, e c’era solo uno dei carcerieri che parlava un po’ l’inglese”) e in regime di cattività, c’è la necessità di comunicare. Al Papa, che lo ha incontrato il 13 settembre, ha detto che ogni giorno ha offerto le sue sofferenze per la Chiesa e per il Pontefice. Papa Francesco si è commosso.
Resta un rapimento dai tanti misteri, uno dei tantissimi di missionari in giro per il mondo, che per fortuna non si è tramutato in uno dei 28 omicidi di operatori pastorali censiti dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli alla fine del 2016. Nessuno sa perché non sia stato ucciso come gli altri, nessuno sa in che modo sia stato liberato.
Padre Miguel Angel Artime, rettor maggiore dei Salesiani, spiega che “noi salesiani non sapevamo niente e non ci aspettavamo niente, fino al momento in cui abbiamo ricevuto una chiamata direttamente dall’aereo del sultanato di Oman che riferiva: ‘Fra un’ora il vostro confratello sarà a Fiumicino’. E lo abbiamo subito indirizzato verso la comunità vaticana, perché lì c’è vicinanza con il centro medico del Vaticano, e lo potevano curare”. Né padre Tom – aggiunge padre Artime, quasi a proteggere il confratello – “sa tanto dei rapitori. Può solo dire che ha vissuto in modo tranquillo, familiare, sebbene privato di libertà”.