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Ecco come gli allievi di Benedetto XVI hanno affrontato il tema del martirio

Monsignore Helmut Moll | Monsignore Helmut Moll nel suo ufficio nell'arcidiocesi di Colonia  | Arcidiocesi di Colonia Monsignore Helmut Moll | Monsignore Helmut Moll nel suo ufficio nell'arcidiocesi di Colonia | Arcidiocesi di Colonia

Cosa è il martirio? Come può essere definito? E cosa è il martirio nella teologia di Benedetto XVI? È stato questo uno dei temi di discussione all’ultimo Ratzinger Schuelerkreis, l’incontro del circolo di ex allievi di Benedetto XVI che si è tenuto dall’1 al 3 settembre a Roma. Uno dei relatori, monsignor Helmut Moll, è stato allievo del professor Ratzinger in due università diverse, e poi ha collaborato con lui alla Congregazione della Dottrina della Fede, prima di essere chiamato in Germania ad occuparsi del grande progetto del martirologio tedesco del XX secolo, una iniziativa nata su impulso di San Giovanni Paolo II. Con ACI Stampa, monsignor Moll condivide i temi del suo intervento e la discussione sul tavolo.

Di cosa ha parlato al Ratzinger Schuelerkreis?

Ho parlato della definizione di martirio. Come si può definire un martire? È un tema molto importante. Ci sono alcuni estremisti che affermano che gli attentati suicidi sono martirio, altri che dicono che le vittime di questi incidenti sono da considerare martiri. Ma la definizione di martirio è stata data, e in maniera molto precisa.

Quale è, dunque, la definizione di martirio?

Sono tre i criteri per riconoscere un martire, codificati da Papa Benedetto XIV. Il primo criterio è la morte violenta. Ad esempio, chi viene ucciso in una camera a gas, strangolato, fucilato, ma anche la morte passiva, vale a dire chi viene lasciato morire di fame e di sete. Il secondo criterio è quello di avere dato una testimonianza cristiana, e un esempio lo abbiamo in Germania, con i cattolici che non hanno mai votato né sostenuto pubblicamente Hitler e per quello sono stati perseguitati. Il terzo criterio è quello di essere disponibili ad essere uccisi per la fede: se quanti hanno dato testimonianza poi fanno un passo indietro nel momento della prova, non possono essere considerati martiri. Questi sono i criteri della fede, validi fino ad oggi.

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Ora, però, si parla di un nuovo modo per giungere alla canonizzazione: il dono della Vita. È questo un nuovo modo di considerare un martirio?

No. Coloro che sono considerati santi per aver donato la vita devono possono essere canonizzati solo dopo che c’è un miracolo attribuito alla loro intercessione, cosa che non succede con i martiri. Non si tratta di martiri, ma di confessori con una certa specializzazione.

Perché allora c’era bisogno di un nuovo criterio?

È un tema di lunga data. Io sono stato consultore per dieci anni della Congregazione per le Cause dei Santi. Si fece un simposio con illustri professori tempo fa, e durante questo simposio si notò che, nei criteri di canonizzazione, mancava qualcosa. Andava in qualche modo definita la santità di quanti dedicavano la propria vita agli ammalati, o – per fare un altro esempio – dei sacerdoti che vanno nelle linee di guerra a dare cibo e bibite ai soldati, o ancora di quanti dedicano la loro vita alla missione, fino a perdervela, come è successo a padre Damian de Veuster, il missionario belga nell’isola hawaiana di Molokai. Non si tratta di martiri in senso stretto, ma hanno una specialità. E per questo si sentiva il bisogno di un quarto criterio, che è stato creato da Papa Francesco. Si tratta, in fondo, della dedizione di vita che causa una morte prematura.

Quindi il martirio resta sempre il martirio secondo i criteri di Benedetto XIV…

Non pochi desiderano allargare la criteriologia del martirio. Per esempio, i teologi della Liberazione sostengono che quando qualcuno in America Latina ha sofferto e dato la propria vita nella battaglia della liberazione è considerato martire, o che se una suora che fa assistenza ad un bambino e viene contagiata dalla sua malattia, allora è martire. Io invece trovo che i criteri di Benedetto XIV siano validissimi. Ci vuole una morte cruenta per essere martire. Ci vuole lo spargimento di sangue che vuol dire la vita. Ci sono dei casi grigi, e questi casi possono rientrare, appunto, nella categoria del dono della vita.

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Ma cosa è il martirio per Benedetto XVI?

Benedetto XVI ha insegnato in cinque cattedre diverse in Germania – a Frisinga, Bonn, Munster, Tubinga e Ratisbona – ma il tema del martirio è un frutto che ha sviluppato soprattutto a Ratisbona e poi a monaco. Benedetto XVI interpreta il martirio come un segno di amore infinito. Non c’è nessuna rabbia, nessun odio nel martirio, ma solo l’atto supremo d’amore. Si rifà all’Eucarestia, atto del martirio che è la rappresentazione della Passione di Cristo, il quale si è offerto per noi e per i nostri peccati. E noi, sacerdoti e fedeli, siamo chiamati ad imitare la passione di Cristo. Purtroppo, per la maggior parte dei credenti l’Eucarestia è una comunanza di fedeli. Il senso più profondo dell’Eucarestia è dare invece la vita per Cristo, perché l’Eucarestia è amore insuperabile.

Quale è la più grande eredità che lascia Benedetto XVI?

Lui ha una capacità intellettuale illimitata. Ha delle intuizioni incredibili. Per esempio, c’era un certo Drewermann che aveva un grande successo in Germania, e lui si chiedeva perché avesse tanto successo. E poi comprese che la nostra era una teologia troppo razionale, ha subito detto che la teologia vuole un cuore e il corpo. E per questo il suo linguaggio è un poema, ha una grande profondità di pensiero e di parola. Quando poi si cominciò a parlare di teologia della liberazione, lui aveva subito percepito che con la terminologia marxista non si può elaborare una vera teologia. Leonardo Boff ribadiva che si trattava solo di parole, ma il Cardinale Ratzinger ribatteva che le parole hanno anche in sé una parte di contenuto.

Si parla molto di ecumenismo del sangue oggi. Quanto lo nota nella sua ricerca?

I cristiani al tempo di Hitler si confrontavano con una ideologia non cristiana, e per questo le confessioni cristiane si sono unite per combattere contro il nemico comune. Ma è anche vero che dopo la Seconda Guerra Mondiale non è stato continuato il cammino ecumenico. Direi che in caso di pericolo i cristiani si radunano con una voce. Nei campi di concentramento, cattolici e protestanti erano insieme, hanno letto insieme le Sacre Scritture, hanno sentito il comune appello ad essere cristiani.

Sul tema del martirio, cattolici e protestanti possono convergere?

Difficile. C’è un martirologio delle Chiesa protestante, ma ci sono criteri diversi. I Protestanti non riconosco il martirio della purezza, quello di Santa Agnese, di Snata Cecilia, e ammettono anche dei suicidi. Ma la grazia è una cosa assoluta, tutti gli argomenti in favore del suicidio non sono sufficienti. I protestanti, però, lo hanno accettato nei loro martirologi.