A chi mi rivolgo? Naturalmente la mia risposta è diretta anzitutto agli studiosi a cui, dopo una sintesi del loro pensiero, mi dirigo, con una critica, come si dice, che può essere anche un compartire il loro punto di vista. Fondando tale atteggiamento, e agendo in modo rispettoso e costruttivo affinché ci sia con essi un dialogo in scriptis, nell’impossibilità di farlo per il momento dal vivo, e che possano ad esso accedere gli studiosi delle varie tendenze e gli interessati alla riforma e approfondire così le varie questioni in un momento in cui di dialogo intraecclesiale c’è vero bisogno. Mi auguro però che anche altri possano conoscere le ragioni profonde su cui si dibatte, si decide e – spero – si faccia sintesi, unità nella legittima diversità, come del resto avvenne durante il Vaticano II, nonostante tutto, che per me è l’analogatum princeps del modo di procedere nella realizzazione del binomio inscindibile primato-sinodalità (e collegialità).
La struttura del mio libro per questioni di praticità nella risposta rispetta quella del Seminario a cui mi riferisco, i suoi punti di cristallizzazione, di coagulo che qui ricordo, pur correndo il rischio di troppo allungarmi: I. La riforma missionaria della Chiesa. Popolo di Dio in cammino. Il rinnovamento della Chiesa oggi alla luce del Concilio Vaticano II. II. Le lezioni della storia circa la riforma della Chiesa. III. La comunione sinodale come chiave del rinnovamento del Popolo di Dio. IV. Le riforme delle Chiese particolari e della Chiesa universale. V. L’unità dei cristiani e la riforma della Chiesa. VI. Verso una Chiesa più povera, fraterna e inculturata. VII. Lo spirito e la spiritualità della riforma evangelica della Chiesa.
E anche per aiutare il lettore che non avesse a disposizione il volume di riferimento e fargli intendere di più che la mia è una risposta, per l’intervento di ogni partecipante al Seminario in parola ho fatto una sintesi dei suoi principali punti di vista e delle sue convinzioni e proposte.
La formula benedettina, chiamiamola così, e cioè “non ermeneutica della rottura nella discontinuità, ma della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa” certo è di Papa Benedetto, ma egli esprime quanto tutti i Papi conciliari e post Vaticano II, anche Papa Francesco hanno tenuto, direi creduto. Perché qui entriamo in ciò che è specifico del cattolicesimo, ciò che ha fatto passare Newman dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Sento quindi di poter dire che questa è la chiave ermeneutica definitiva, e che stava fin dall’origine, del Vaticano II.
Nel suo primo Natale da Papa, Benedetto XVI, riguardo all’ultimo Concilio ecumenico, parlò – come lei per l’appunto ricordava – di “riforma e rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”. Lei l’ha appena definita la “chiave ermeneutica definitiva” del Vaticano II, eppure risulta ancora un tema divisivo nel dibattito ecclesiale…
Lei tocca subito il punto fondamentale da chiarire sia per i convegnisti, sia per colui che è qui intervistato, e ancora per il Vaticano II e per l’attuale momento postconciliare. Qual è l’ermeneutica ecclesiale, dopo il gradino storico e prima di quello della ricezione, circa quel magno Sinodo?
Se legge il mio libro troverà a conferma, che non poche volte io chiedo a chi interviene quale è la sua ermeneutica. In effetti io credo che ci troviamo in alto mare a tale rispetto proprio perché non si rinuncia all’ermeneutica della rottura, implicita a tutte le volte che anche nel libro si parla di rivoluzione. Ed è la parola che primeggia in questo libro di riferimento del mio saggio. Il che mi pare si opponga proprio a uno sviluppo non solo organico (questo si dice una sola volta) ma omogeneo, caratteristica del cattolicesimo.
Del resto Papa Francesco applica il termine “rivoluzione” all’evento fontale del Cristianesimo, il Signore Gesù e il suo Vangelo. Altrimenti si corre il rischio di precipitare in quel vortice di rottura che cattolico non è, lo ripeto.
Qui troviamo direi anche il punto nevralgico del binomio primato e sinodalità (e anche collegialità naturalmente) poiché lo sviluppo dogmatico nella Chiesa dev’essere omogeneo per poterlo accettare e aggiungerei mutatis mutandis anche nella prassi nella vita. E mi ricordo qui le difficoltà del grande Jedin quando affermava che il Vaticano II era in continuità con il Concilio di Trento. Mal gliene incolse da parte di chi si può considerare fazioso e non illuminato.
A conclusione di un capitolo del libro, lei cita quanto il beato Paolo VI disse a Bogotá nel 1968, ponendo a confronto la Chiesa “cosiddetta istituzionale”, con “un’altra presunta Chiesa cosiddetta carismatica, quasi che la prima, comunitaria e gerarchica, visibile e responsabile, organizzata e disciplinata, apostolica e sacramentale, sia espressione di un cristianesimo ormai superato, mentre l’altra, spontanea e spirituale sarebbe capace di interpretare il cristianesimo per l’uomo adulto della civiltà contemporanea, e di rispondere ai problemi reali e urgenti del nostro tempo”. Le sembra che questa contrapposizione si avverta ancora oggi?
Chi studia la storia della Chiesa e della Teologia e anche del Diritto canonico sa quanto questo confronto, che per molti è opposizione, tra Chiesa dello Spirito (“cosiddetta carismatica”) e diciamo Chiesa istituzione si trova oserei dire sempre, pur in svariate sfumature ed espressioni. Anche i giovani universitari, pur cristiani e diciamo rivoluzionari, che seguivo al tempo del mio servizio a Cuba, avevano la tentazione di dire “Cristo sì, Chiesa no”, e intendevano quella gerarchica, istituzionale, se vogliamo.
E che diceva del resto Romano Guardini scrivendo a Paolo VI, in fondo, a questo proposito? Si esprimeva così: “La scelta cristiana non viene propriamente compiuta riguardo alla concezione di Dio e nemmeno riguardo alla figura di Cristo, bensì riguardo alla Chiesa. Ciò che può convincere l’uomo moderno non è un cristianesimo modernizzato in senso storico e psicologico o in qualsiasi altro modo, ma soltanto l’annuncio senza limiti e interruzioni della rivelazione. Naturalmente è poi compito di chi insegna porre questo annuncio in relazione ai problemi e alle necessità dei tempi”.
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Comunque nel Vaticano II basta rileggere il n. 8 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium per incontrare “la Chiesa come organismo visibile… La società costituita di organismi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, la comunità visibile e quella spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti non si devono considerare come due cose diverse, ma formano una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una non debole analogia, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato… l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo”.
Orbene questa verità era certamente una risposta alla Sitz im Leben al tempo del Vaticano II, ma ancora di più, secondo me, a quella del postconcilio fino ad oggi.
Ritiene che il primato pontificio e l’autorità ad esso associata siano oggi considerati un freno al lavoro collegiale? Come si conciliano primato e sinodalità?
La risposta merita la lettura del mio libro, specialmente perché, come dicevo, all’inizio riassumo per sommi capi le posizioni dei partecipanti. Da essa risulterà che purtroppo la visione abbastanza generale è nel senso che il primato è in fondo un freno, meglio, non se ne parla, si osserva, si sottolinea la sinodalità, senza tener conto della inscindibilità del binomio fondamentale “primato-sinodalità”. E ciò, si badi bene, non risulta solo nella questione del primato pontificio. Ci sono altri “protos”, i patriarchi, per esempio, i metropoliti, i vescovi nelle loro diocesi, oltre che per essere “cum Petro et sub Petro” membri del Collegio episcopale, che nella collegialità in senso stretto ha pure un primato.
In questa prospettiva ho citato qualche volta nel mio libro l’intervento di Papa Francesco ai Padri sinodali, nella loro prima Congregazione generale della III Assemblea generale straordinaria (v. L’Oss. Rom. del 6-7 ottobre 2014): “La Chiesa universale e le chiese particolari sono di istituzione divina; le chiese locali così intese sono di istituzione umana… il Sinodo si svolge cum Petro et sub Petro”. Per essere sinceri, vedo invece nei testi da me analizzati un desiderio diffuso di affievolimento dell’aspetto divino con prevalere dell’umana tendenza oggi. E questo vale anche per la visione dell’episcopato.
Come si conciliano “primato e sinodalità”? Tenendoli insieme, e dando a ciascuno il suo, considerando quel “et” “et” che tante volte ripeto, ricordando per la collegialità, per esempio, le soluzioni offerte dal magno Sinodo, tenendo presenti i Concili, il Magistero, la storia, il diritto. Mi fermo ma potrei continuare.