Arriva la Prima Guerra Mondiale. Papa Benedetto XV si impegna per la pace, ed è frustrato dalla difficoltà ad avere relazioni diplomatiche. Perché gli ambasciatori intrattenevano rapporti con la Santa Sede attraverso le ambasciate ubicate anche in Italia. Ma i Paesi in guerra ritirano i loro ambasciatori. Per Benedetto XV diventerà difficile avere rapporti con la Germania, con un ambasciatore che è in guerra con l'Italia e non si trova più, appunto, fianco a fianco in Vaticano. È necessario un territorio, e uno Stato sovrano, per portare avanti una missione di pace.
Finisce la guerra, e presidente del Consiglio è Giovanni Giolitti. Si parla, da tempo, di una conciliazione tra Stato Italiano e Chiesa. Ma Giolitti è contrario. Il problema – allora come oggi – è la sovranità. “Se il Vaticano mi domandasse in piena sovranità un territorio grande come un francobollo (e certamente me ne domanderebbe uno più grande) io non glielo darei”, dice – e le sue parole sono riportate nelle memorie della Conciliazione del cardinale Pietro Gasparri, ancora inedite e portate alla luce da Benny Lai, decano dei vaticanisti, nel suo libro “Finanze Vaticane”. Furono queste parole che fecero crescere l’attenzione nei confronti di Benito Mussolini. Il quale, da semplice deputato, aveva dichiarato come il fascismo non predicasse e non praticasse l’anticlericalismo. Era il 1921. Mussolini prenderà il potere un anno dopo.
La Conciliazione
Le trattative per la Conciliazione sono lunghe e complesse. E uno dei problemi fu proprio il tema finanziario. Se ne occupò personalmente Pio XI. Il quale puntava ad ottenere una indennità da due miliardi di lire, da versarsi in alcune rate. La stessa somma, con relativi interessi – sosteneva il Papa – che lo Stato italiano si era unilateralmente impegnato a pagare dopo l’occupazione di Roma, con la leggi sulle guarentigie. Si accontenterà, alla fine, di un miliardo e 750 milioni di lire, parte in contanti e parte in titoli al portatore.
Cosa fare di quel patrimonio? Due mesi dopo la firma dei Patti Lateranensi, e quasi trenta giorni prima della loro ratifica, il Papa chiede di prendere contatto con l’ingegner Bernardino Nogara, per dargli l’incarico di gestire i fondi provenienti dalla Convenzione Finanziaria. Sono questi i “soldi di Mussolini” di cui parlava il Guardian. Soldi, in realtà, dello Stato italiano, che andavano a compensare e riparare una occupazione. E che servirono alla Chiesa per riprendere nel modo migliore la propria missione mondiale.
Ma il Guardian sostiene che Mussolini avrebbe ricompensato il Vaticano per il sostegno e il riconoscimento ufficiale del regime con un enorme patrimonio, che sarebbe stato investito a Londra in due immobili di pregio. Questi immobili sarebbero di proprietà della Grolux Investments, controllati dalla società svizzera Profima, che sarebbe riconducibile al Vaticano. Di questa società sarebbe stato infatti parte del Consiglio di Amministrazione proprio Bernardino Nogara (1870-1958).
Finanza vaticana, i primi passi
Dove è il mistero? Bernardino Nogara portò in Vaticano il concetto di partecipazione azionaria. Gli venne affidata la sezione Speciale dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, e da quel posto – analogo ad una banca centrale – comprò azioni, con investimenti cospicui e indovinati. Era il periodo della Grande Depressione del ’29, e permise a Nogara di comprare partecipazioni in varie società. Nogara poté così sedere nei Consigli di Amministrazione di innumerevoli società italiane, e questo ne aumentò il prestigio internazionale. E – proprio durante la Grande Depressione – Nogara creò la Grolux e la svizzera Profima. Una società che rientrava nella strategia di diversificare gli investimenti della Santa Sede, puntando sull’oro e sul mattone.
La storia della Grolux è stata raccontata da John Pollard, nel libro Money and the Rise of the Modern Papacy: Financing Vatican 1850-1950.
Nel libro, Pollard segue il tragitto del denaro lungo tre continenti. La sua vuole essere una storia sul Papato e sull’amministrazione del denaro. Ma in realtà, molti Papi – a parte Pio XI – non si sono occupati per niente dell’amministrazione. Ci sono una ristretta cerchia di laici e religiosi che invece hanno lavorato per la Santa Sede sulle materie finanziarie. E i loro profili sono affascinanti.
Per esempio, Giacomo Antonelli, cardinale segretario di Stato di Pio IX, che gestì la Tesoreria dal 1850 al 1876. Antonelli fu no degli architetti della prima riorganizzazione del budget degli Stati papali. Il suo sforzo di portare in pareggio un bilancio disastrato dall’occupazione e dalla perdita dei territori pontifici dipese soprattutto da un prestito chiesto e ottenuto dalla Banca dei Rothschild.
E qui il lettore si può stupire: hanno chiesto un prestito ad una banca ebrea? Ma non c’è niente da stupirsi. Anzi, i rapporti della Chiesa con il mondo ebraico sono più stretti di quello che si può pensare. Tanto che fu Cameo, un giurista ebreo, a delineare la Legge Fondamentale dello Stato di Città del Vaticano dopo la Conciliazione. E Bernardino Nogara veniva dalla Banca Commerciale Italiana, gestita da una lobby ebraica che faceva capo a Toepliz. Un legame che fece sì che il Vaticano comprasse per anni solo azioni della Banca Commerciale Italiana, a discapito di altre banche.
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Nogara poteva contare su una rinata attività diplomatica della Chiesa, che Benedetto XV aveva lasciato con le casse vuote a causa della guerra, che impediva ai vescovi di portare il contributo dei fedeli per l’Obolo di San Pietro nelle visite ad limina. Dal 1930, Nogara investì in una rete di progetti che si estendeva per tutta l’Europa, i centri finanziari degli Stati Uniti e persino il Sud America.
Chi era Bernardino Nogara?
Primo non romano a prendere il controllo delle finanze vaticane, Nogara veniva da una famiglia così cattolica da piangere per l’ingresso dei bersaglieri del Regno d’Italia a Roma. Laureatosi a pieni voti in ingegneria industriale ed elettrotecnica all’Università di Milano, era partito per l’Inghilterra subito dopo il matrimonio, e andò a lavorare in una miniera del Galles. Da lì fu inviato in un’altra miniera in Grecia. Nel 1908 risiedeva a Costantinopoli e dirigeva miniere nell’Asia Minore. Lì fondò la Società Commerciale d’Oriente, un “braccio” della banca Commerciale. Conosceva così bene l’ambiente politico ed economico dell’Impero Ottomano che divenne l’uomo di fiducia del governo italiano per tutti i problemi d’Oriente.
In questa veste, si occupò del Trattato di Ouchy, che pose fine alla guerra libica tra Italia e Turchia. Nel 1914 entrò nel Consiglio di Amministrazione del Debito Pubblico Ottomano come delegato italiano, e alla fine della Prima Guerra Mondale era nelle commissioni economiche e finanziarie delle Conferenze che dovevano stipulare i trattati di pace con Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia.
Un uomo, insomma, dalle molteplici relazioni, che si estendevano dal mondo politico diplomatico al settore bancario. L’uomo giusto per gestire un patrimonio che nasceva con una vocazione internazionale, tanto che agli impiegati della Speciale era richiesta la conoscenza fluente del francese e dell’inglese.
E nel frattempo, crescevano le Opere di Religione. Dopo l’ingresso dell’Italia in guerra accanto alla Germania di Hitler, nel 1940, le possibilità operative delle Opere di Religione hanno bisogno di crescere.