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Cardinale Filoni: "Un mese missionario, per ricordare che la Chiesa non ha periferia"

Cardinale Fernando Filoni | Il Cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli | Daniel Ibanez / ACI Group Cardinale Fernando Filoni | Il Cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli | Daniel Ibanez / ACI Group

Nessuno è periferia nella Chiesa. Lo dice il Cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli , raccontando la sua esperienza nei territori della prima evangelizzazione, nella Colombia amazzonica. “Perché si deve far capire a tutti che, sì, magari da un punto di vista geografico possono essere lontani da altri centri. Ma che tutti sono sempre nel cuore della Chiesa”.

Il Cardinale Filoni parla con ACI Stampa commentando la proclamazione del mese missionario, che si terrà a ottobre 2019, per celebrare il centenario dell’enciclica Maximum Illud di Benedetto XV, la prima delle encicliche missionarie del XX secolo. Una enciclica fondamentale per comprendere l’evangelizzazione oggi.

Come è nata l’idea del mese missionario?

È nata riflettendo sulla Maximum Illud di Benedetto XV, un documento che compirà 100 anni nel 2019. Si tratta di un documento straordinario: dà della missionarietà una visione nuova. Il Papa chiamava per la prima volta tutta la Chiesa a sentirsi responsabile della missione, e riconosceva allo stesso tempo i valori impliciti nelle altre presenze religiose del mondo. Non si trattava più di aver luoghi o religioni da conquistare. Erano piuttosto luoghi dove proclamare l’annuncio del Vangelo, e dare la possibilità di ascoltarlo ai nuovi popoli che si affacciavano nella storia.

In che modo il documento si protende fino ad oggi?

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Dalla novità della valorizzazione delle culture ed identità della Maximum Illud, abbiamo notato che l’architettura della missione è un ponte con diverse arcate, che dall’enciclica di Benedetto XV, al decreto conciliare Ad Gentes sulle missioni, passando dalla Redemptor Hominis di San Giovanni Paolo II fino all’Evangelii Gaudium di Papa Francesco, costruisce l’architettura dell’idea missionaria della Chiesa.

Come si svolgerà questo mese missionario?

Consisterà in una serie di incontri, diviso per settimane tematiche. Il Papa richiamerà la Chiesa al senso di responsabilità alla missione, perché – come ha detto recentemente Papa Francesco nel messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2017 – “se la Chiesa non è missionaria rischia di essere una associazione qualsiasi”. E tutti, in ogni parte del mondo, saranno chiamati a individuare il modo in cui ciascuno può celebrare questo mese missionario. Abbiamo invitato sin d’ora le direzioni nazionali delle Pontificie Opere Missionarie ad essere attive e creative nel programmare le celebrazioni.

Ci sarà un documento per celebrare il centenario? Magari una enciclica del Papa?

È probabile. Non so che forma avrà – se una enciclica, una lettera – ma io spero di sì. È nelle nostre intenzioni.

Nella Maximum Illud, Benedetto XV affrontava una serie di problemi, come quello della formazione dei sacerdoti. Sono problemi ancora attuali?

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Non dobbiamo pensare che ci sia un problema che non esiste più. Prendiamo il tema della formazione sacerdotale. Quando nel 1627 fu fondato il Collegio Urbano da Urbano VIII, si puntava all’educazione per poter formare i sacerdoti autoctoni, chiamati poi a tradurre il tutto nella “lingua” del posto. Una idea molto bella, che nel 1627 era già preceduta dai primi movimenti di missionarietà, come le Pontificie Missioni Estere di Parigi. E se ne parlava già nel 1627.

Resta dunque il problema della formazione?

È un problema amplissimo. Ci sono centinaia di seminari che si sono sviluppati, soprattutto in terre di missione. La questione della formazione fu discussa ampiamente al Concilio di Trento, che chiese la creazione dei seminari. E la questione non si è esaurita. Pensiamo solo che 100 anni fa, tanti Stati non esistevano: molti Stati erano solo colonie, oggi sono realtà con storie, culture precise, capaci in questo contesto di aiutare la formazione del popolo in cui si trovano, vivono, sono inculturati. La formazione va sempre aggiornata.

Benedetto XV chiedeva, in particolare, una preparazione culturale elevata, per poter partecipare ai dibattiti, poter sviluppare la cultura. Quanto è importante oggi questa preparazione culturale in un mondo sempre più secolarizzato?

Ci sono vari tipi di secolarizzazione. Se parliamo del mondo secolarizzato occidentale, è una questione, ma se parliamo della secolarizzazione in un mondo come quello africano, il punto di vista è completamente differente. Visto dall’Africa, la secolarizzazione sembra una malattia che può penetrare lì dall’estero. Sappiamo che i virus circolano, e dunque nessuno può dire di essere immune.

Cosa si può fare allora?

Bisogna comprendere come la dispersione dei nostri valori porti a un modo diverso di pensare, di essere e di vivere rispetto invece a quei posti dove i valori fondamentali hanno ancora consistenza. Ed è lì che questi valori vanno riaffermati, e poi adattati, perché ci sono valori tradizionali che non sempre sono recepibili in tutto e per tutto in ambito cristiano. Questo deve essere un adattamento da fare in continenti come l’Africa, l’Asia, l’Oceania e anche in tanta parte dell’America, in particolare in America Latina.

A proposito dell’America Latina: lei è stato in Colombia un anno fa, e lì ha visitato dei luoghi che sono ancora di prima evangelizzazione. Come mai ci sono luoghi di prima evangelizzazione in continenti ormai cristiani da secoli?

Sono stato in particolare nelle nostre circoscrizioni ecclesiastiche, vicariati apostolici e diocesi nell’Amazzonia, dove il territorio non è facilmente raggiungibile. Io sono stato in due vicariati apostolici di difficilissimo accesso, che si possono raggiungere solo in canoa, attraverso la foresta e i fiumi. L’America di cui parlo, quella della zona amazzonica, è difficilissima per l’approccio che si deve avere con le indigenità.

Quale è il tipo approccio da adottare?

Non devono essere ideologizzate, non si deve entrare pesantemente. Nella loro cultura, a volte il cristianesimo entra quasi naturalmente. Ma bisogna avere la pazienza per capirsi, per incontrarsi, per dialogare”. Un capo indios mi disse: “Noi siamo qui e ci meravigliamo di come lei, un grande capo dell’Occidente, viene in questo remoto villaggio”. È stato complesso fargli capire che sì, è vero, il loro villaggio da un punto di vista geografico può essere lontani da altri centri, ma che comunque loro sono nel cuore della Chiesa, e che la distanza in fondo non esiste. Non perché le connessioni internet ci annullano, ma perché nessuno nella Chiesa deve dire: io sono periferia. Ecco, questo è il vero messaggio che deve arrivare.

Si può dire che tutta la missione della Chiesa è annullare l’idea di periferia…

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Esattamente, il Papa dice che dobbiamo andare alle periferie. Benissimo! Ma il passo successivo è che quella periferia non deve esistere, perché ogni luogo è il centro della Chiesa. È un po’ il discorso che il Papa ha fatto per il messaggio della giornata missionaria del 2017, quando ha scritto che “la missione è al cuore della fede cristiana”. La missionarietà è al centro della fede cristiana. Il passare mari, il passare i luoghi, è solo l’aspetto accidentale del muoversi, ma il cuore è sempre lì dove c’è qualcuno, dove l’annunzio del Vangelo è fatto: quello è il cuore della Chiesa. È interessante in quella visione che il Papa dà nella inclusività, non nella esclusività – tu sei qua, tu sei là, eccetera… - la fede annulla queste distanze. Io ricordo che una volta in Cina, un cristiano mi disse: “Parliamo lingue diverse, ma io non mi sento diverso da lei. Abbiamo la stessa fede, e quando entro in una chiesa, mi sento a casa”.

Dalla prima enciclica missionaria del XX secolo, la Maximum Illud, all’ultima, la Redemptor Hominis, c’è un dato che salta agli occhi: nell’ultima, San Giovanni Paolo II si sente nella necessità di dover reiterare i dogmi della dottrina cristiana, cosa che non fa Benedetto XV. Perché?

Al tempo della Maximum Illud l’Occidente aveva anche maggiore omogeneità. Oggi, per un processo di secolarizzazione, ma anche di integrazione, la realtà è più frammentata. Ci sono tanti popoli che migrano. Ad esempio, l’Italia, una volta considerato Paese cattolico, ora è pieno di espressioni religiose, culture, provenienti da luoghi dove Cristo stesso non è arrivato. C’è, in generale, una società che comprende tuto, dal fedele che conosce e non conosce al secolarizzato che ha perso il senso della fede, all’ateo, a chi ha differenti credi religiosi. In questa multilateralità, è chiaro che la prima domanda cui rispondere è: “Io chi sono? Cosa credo? Chi è Gesù Cristo?”

Lei che è stato diplomatico, sa che la missione è sostenuta anche dal lavoro diplomatico della Santa Sede, che punta a garantire la libertas ecclesiae. Succede in posti caldi, e il primo esempio che viene in mente è quello della Cina. Come fare a far sì che diplomazia e missionarietà vadano di pari passo?

Non sempre vanno di pari passo. A volte ci sono dei contrasti, perché le esigenze della diplomazia non sono sempre quella della fede, e le esigenze della fede sono oltre la diplomazia – intesa, questa, anche come relazioni tra Stati. La fede va oltre tutto questo. Ma è chiaro che, quando uno Stato percepisce di dover essere uno Stato totalitario, non controllando solo il cittadino, ma anche la sua mente e il suo cuore, la libertà della Chiesa viene meno. Così come viene meno la libertà della Chiesa in quei Paesi dove si rivendicano le tradizioni religiose come fondanti, non dando spazio ad altri. In quei casi, significa che stiamo regredendo, perché non è possibile che identificando religiosamente dei luoghi ci si ispiri soltanto a conservare uno status quo che non lascia spazio ad altri.

Cosa succede in quei casi?

L’unica concessione che viene fatta dai leaders, a volte, è sottolineare di essere un Paese tollerante. Ma la tolleranza non è cristiana. La libertà è cristiana. Personalmente, quando mi trovo in queste situazioni, sottolinea che la tolleranza per non scontrarsi va bene, ma si tratta solo di un primo passo, perché l’obiettivo è quello della libertà religiosa. Alcuni Stati dicono che è permessa la libertà di culto. Che non è la stessa cosa. La libertà di culto è la necessaria conseguenza della libertà religiosa, in cui ciascuno è libero di annunziare la propria fede. E io sono libero di annunziarla, l’altro di accettarla oppure no.

Sembra che la libertà religiosa sia minacciata soprattutto ad Est: penso agli Stati islamici in Medio Oriente, o a Paesi ancora di mentalità comunista, come Laos, Cina, Vietnam…

Dobbiamo evitare di generalizzare. Tante volte, le situazioni nei Paesi sono create da identità che cercano di prendere il potere in mano e usano a loro vantaggio la persecuzione religiosa. Ma va ricordato che il vero leader non si poggia sul senso del partitismo. Ha una visione molto ampia. Non dovrebbe mai negare i diritti fondamentali. Ma questo atteggiamento è frutto di una mentalità in cui una cultura dominante fa paura. Allora si indietreggia e ci si chiude e si mettono barriere e cancelli. Come diceva San Giovanni XXIII, in tanti chiudono le finestre perché hanno paura dell’inquinamento. Ma non considerano che insieme all’inquinamento entra anche tanta aria buona.

Cosa è la missione oggi?

L’annunzio del Vangelo a tutti i popoli. M questo non significa che tutti devono diventare cristiani. La presenza cristiana è un servizio. Basti pensare che abbiamo potuto creare migliaia di scuole, come anche nel Medio Oriente, e queste sono frequentate e richieste anche da membri delle altre religione. Perché? Perché si sa che nelle nostre scuole l’insegnamento è un bene per la persona, e i valori sono un bene per la persona. La scelta, poi, di essere cristiano, musulmano o indù è soggettiva e personale. Dipende dalla famiglia e dalla cultura. Noi però diamo i valori fondamentali. Quando ci si chiude e si crea una scuola tipicamente confessionale, comincia ad esserci un serio problema.

Ma evangelizzare è anche convertire?

No. Evangelizzare è proporre il Vangelo con l’annunzio e come dice Papa Francesco per contatto, con la testimonianza. Non per convertire, perché andare per convertire significa andare con piedi pesanti e rompere tutto. Chi entra in questo modo rischia anche di diventare un po’ “jihadista”. Gesù non ha mai imposto niente, ha sempre proposto. Non ha mai obbligato nessuno. E, accanto alla proposta, c’era il contatto. Così dobbiamo lavorare.

Ci sono vocazioni missionarie oggi?

Nei Paesi sotto la gestione della Congregazione c’è grande aumento di vocazioni missionarie, tanto che i vescovi sono chiamati a fare una forte selezione. Non tutti i missionari sono chiamati a fare i sacerdoti, ma ci sono tante vocazioni in terra di missione. Specialmente perché ci sono molti figli, molta realtà umana. Non vale solo per la Chiesa, ma vale anche per la società.