Continua il vescovo Dowd: “Il Papa conosce la revolution tranquille, ma voleva sapere soprattutto come i vescovi del Quebec stanno cercando di adattarsi e affrontare la situazione, in modo da essere quei missionari che il Papa vuole per la Chiesa.”
La sfida è “come cambiare da una eglise de chretienté, un cristianesimo istituzionalizzato, a una eglise en mission, e questo è stato espresso in molti modi. Come passiamo da un approccio istituzionale a un approccio più aperto. Ed è un cambiamento culturale enorme, un cambiamento di mentalità che porta con sé un cambiamento delle strutture, un cambiamento dell’organizzazione”.
Le domande – aggiunge il vescovo Dowd – “si sono concentrate soprattutto su come essere chiesa di missione, partendo soprattutto dalla Evangelii Gaudium, e lui ha dato noi molti suggerimenti su come essere missionari”.
A questa sfida si lega un altro tema, legato direttamente alla revolution tranquille: ci sono meno risorse – meno sacerdoti, meno religiosi, meno soldi. “In qualche senso – spiega il vescovo ausiliare Dowd – dobbiamo passare a diventare maggiormente missionari all’interno della nostra stessa nazione, più che missionari verso le altre nazioni, cosa che abbiamo sempre fatto. Lo avremmo già dovuto fare, ma ora siamo quasi forzati dalla situazione materiale”.
Si tratta della spinta verso le periferie di Papa Francesco, che il vescovo Dowd interpreta così: “Per il Papa, l’idea delle periferie non è geografica o esistenziale, ma piuttosto l’idea di uscire fuori dagli uffici, alzarsi dalla sedia, andare fuori e fare qualcosa. La periferia è un qualche livello di carità pratica. La periferia può essere vicina, ma l’idea è di uscire dal proprio narcisismo, dall’autoreferenzialità”.
Tra i temi sollevati dal Papa, quello dei processi che si contrappongono all’istituzione. Un tema cui è molto sensibile perché – spiega – “la mia prima laurea è in business internazionale, e ho un background nella gestione dei processi”, cosa che mi ha insegnato che “i processi devono guidare l’istituzione. L’istituzione possiede i processi, ma sono i processi a guidare. L’istituzione, per natura, tende ad essere difensiva, mentre i processi tendono ad essere più dinamici per natura. C’è bisogno di entrambi”.
Il Papa, da parte sua, ha “suggerito di approcciarsi molto ai processi pastorali, di concentrarsi molto sui processi.”
Se il Papa ha parlato “per due terzi del tempo” nell’ad limina classico, nell’incontro di lavoro del lunedì ha soprattutto ascoltato, proponendo alla fine delle conclusioni. “Questo primo incontro fa parte di una nuova struttura, che è stata proposta solo a poche conferenze episcopale. Fa parte, ho sentito, di un riesame che il Papa sta facendo del funzionamento delle ad limina, e solo noi vescovi del Quebec l’abbiamo sperimentato”, dice il vescovo Dowd.
Tutti i vescovi canadesi hanno posto sul tavolo degli incontri il tema della legge sull’eutanasia, che rappresenta una grande preoccupazione per tutti.
“L’eutanasia è una delle maggiori preoccupazioni pastorali per noi, a diversi livelli – spiega il vescovo – Prima di tutto, perché l’eutanasia è inaccettabile di per se. Poi, quali sono le cure pastorali che vanno fornite a quanti che considerano l’eutanasia, o la cercano. Come proporre alternative all’eutanasia, come le cure palliative. E infine, l’obiezione di coscienza per i dottori, perché l’eutanasia deve essere eseguita dai dottori, e cosa succede se un dottore non vuole?”
Sono queste – dice il vescovo – le “quattro facce del problema dell’eutanasia”. Anche se la domanda principale è: “Perché ci sono così tanti cattolici che sono in favore dell’eutanasia?” E quindi la domanda principale: “Quale è la formazione pastorale che siamo chiamati a dare alla nostra gente?”
E si torna al tema della revolution tranquille. Il vescovo Dowd, il più giovane dei vescovi canadesi, sottolinea di aver già vissuto nel clima della secolarizzazione, di non aver avvertito il cambiamento.
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Ma poi spiega: “La revolution tranquille è parte della crisi della civiltà occidentale, ma ci si deve chiedere perché questa crisi è stata così forte in Quebec”.
“Personalmente – spiega – da persona che è cresciuta dopo che la revolution tranquille si era sviluppata, e da vescovo irlandese-canadese, non franco canadese, sono convinto che la crisi di fede che stiamo affrontando non è una crisi di fede, ma una crisi di speranza. Essenzialmente, quando le persone hanno una crisi di fede si chiedono: cosa dovrei credere? Quando hanno una crisi di speranza, si chiedono: perché dovrei credere? Questa è una questione completamente differente. Chiedersi ‘perché’ ha un effetto depressivo sulla pratica religiosa”.
È per questo – continua – che “molti si ritengono cristiani, ma non praticano. Il livello della pratica religiosa è molto basso, ma molto alto è il livello di autoidentificazione. Sì, vero, quando manca la pratica religiosa, la fede tende a scomparire, ma noi dobbiamo affrontare la questione della crisi della speranza”. Perché “la speranza che fa da ponte a fede e carità, e quando manca la speranza, fede e carità cominciano a separarsi, e allora le persone pensano che può bastare la carità, per esempio, e stare bene anche senza Dio, senza la Chiesa, senza la fede… “
Insomma, “ci sono grandi possibilità per il Vangelo. Non sono ottimista. Ho speranza. E la speranza non è solo l’avere un desiderio. Significa mettere in pratica quello che si spera. Dobbiamo essere ancora intelligenti, e lavorare duro. Anche gli apostoli erano pieni di speranza, ma poi hanno lavorato duro, fino a dare il sangue per quello”.