Roma , martedì, 9. maggio, 2017 12:00 (ACI Stampa).
Nella vita di tutti i giorni aprendo un qualsiasi quotidiano spesso leggiamo notizie che ci lasciano senza parole per la non buona notizia appresa. Ed accanto a ciò, quasi sempre, come reazione pensiamo alla necessità di ristabilire un ordine civile che la violenza ed il male, con il loro atto, hanno intaccato. Quando ci rifacciamo a ciò il discorso non può che non cadere sul tema della pena.
Essa, dal punto di vista pratico, rappresenta una possibilità di ricostituire un ordine sociale civile partendo proprio dal male commesso. Il più volte alla pena si affianca il concetto di punizione ed alle volte anche la sua parallela affermazione di vendetta per quanto accaduto. Ciò è fin troppo umano se si pensa al dolore per la perdita di un parente caro o per una grave ingiustizia subita.
Ma niente di tutto questo appartiene al concetto che la pena, per il Cristianesimo, dovrebbe essere ed è. Ciò è vero anche se non ci deve mai far dimenticare che in tale atto vi è una duplicità di prospettive: l’errore da una parte con il male commesso e l’uomo che lo ha messo in atto. Nella compagine evangelica il Cristo stesso ha sempre apertis verbis combattutto il male mai dimenticandosi di sollevare l’errante ridonadolo ad una nuova vita.
Questa è la prospettiva che la dottrina sociale della Chiesa conferma con lo studio su tali questioni che toccano da vicino l’uomo.
Se il Cristo si è sottoposto alla morte da parte dell’uomo è stato per redimere l’intera umanità dal peccato, quindi in tal caso questo concetto riparativo ha mostrato un risultato utile rappresentato dalla Redenzione finale dell’intera umanità, anche se con un effetto illegittimo in quanto il Cristo era esente da reato e quindi non suscettibile di pena.