Roma , lunedì, 1. maggio, 2017 10:00 (ACI Stampa).
“Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della chiesa. All’indomani del Concilio ecumenico Vaticano II, una rinnovata presa di coscienza delle esigenze del messaggio evangelico le impone di mettersi al servizio degli uomini, onde aiutarli a cogliere tutte le dimensioni di tale grave problema e convincerli dell’urgenza di una azione solidale in questa svolta della storia dell’umanità”: così iniziava l’enciclica ‘Popolorum Progressio’ emanata il 26 marzo 1967 da papa beato Paolo VI.
Secondo il prof. Fulvio De Giorgi papa Paolo VI ha proiettato la Chiesa nel mondo, in quanto Il rinnovamento auspicato dal Concilio voluto da papa Giovanni XXIII “si realizzò compiutamente solo con Montini: con la ricerca di una Chiesa più comunionale, incarnata pluralisticamente nelle diverse realtà e culture, pastoralmente decentrata perché tesa all’uomo concreto, al povero soprattutto, vedendo in esso il volto del Signore … Con Paolo VI cominciò a vedersi una Chiesa che si faceva ‘dialogo’ verso tutti, imparando il lessico dell’uomo moderno: non per parlargli di sé e dei suoi ‘trionfi’, ma per annunciargli il Vangelo”.
Al presidente dell’Istituto ‘Paolo VI’ di Brescia, don Angelo Maffeis, abbiamo chiesto di spiegare il perchè il beato Paolo VI aveva una ‘tensione’ verso il mondo: “La coscienza della distanza esistente tra la chiesa e la cultura del mondo contemporaneo affiora fin dagli scritti giovanili di Giovanni Battista Montini e lo ha accompagnato per tutta la vita. Questo spiega lo sforzo che egli ha compiuto nei diversi ministeri che ha svolto per ristabilire un dialogo con il mondo, con una spiccata attenzione ai luoghi dell’elaborazione del pensiero, ma anche al mutamento della concreta realtà sociale. Quest’ultimo aspetto lo ha potuto toccare con mano soprattutto a partire dal periodo del suo ministero episcopale a Milano, affrontando le sfide pastorali di una società in rapida e profonda trasformazione”.
Allora si può dire che è stato un papa audace?
“Paolo VI, per indole personale e per sensibilità ecclesiale, non ha l’audacia di chi compie scelte avventurose. Tanto nel corso del Concilio Vaticano II come nei difficili anni successivi, il suo sforzo è stato anzitutto quello di tenere unita una chiesa attraversata da forti tensioni. Ma ha avuto indubbiamente l’audacia di chi intende la fedeltà alla tradizione secolare della chiesa come inseparabilmente legata alla ricerca di vie nuove per far giungere il messaggio evangelico all’umanità di oggi”.