Questo fenomeno è riconosciuto?
Se si leggono i rapporti dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, si nota che le migrazioni Sud-Nord e quelle Sud-Sud sono arrivate ad equipararsi, e le proiezioni parlano di una progressiva crescita dell’emigrazione Sud-Sud, specialmente verso le economie emergenti. Le proiezioni, ovviamente, vanno prese come tali: un conflitto improvviso può cambiare drammaticamente il quadro.
L’ultimo rapporto internazionale sulla Dottrina Sociale nel mondo, stilato dall’Osservatorio Van Thuan, era dedicato alle migrazioni. Vi si nota che c’è come una “spinta” politica alle migrazioni, per portare una sorta di mutazione genetica dell’Europa. Si notava che non viene mai sottolineato il “diritto a restare”, proprio per questa volontà politica. E si metteva in luce che i migranti verso l’Europa non sono propriamente indigenti. È davvero questo il problema?
Prima di tutto, la questione del doppio diritto. C’è un diritto ad emigrare, ma anche un diritto a non emigrare. Io credo ci debba essere un impegno più grande nella cooperazione allo sviluppo. Lo sviluppo consiste nel migliorare la possibilità di scelta, è il fatto di dare una scelta se rimanere o andare.
E per quanto riguarda il problema dell’identità?
Dobbiamo guardarci come siamo oggi. Non si può più parlare di società monolitiche e monoetniche. Guardiamo ad una mescolanza di razze che non può non giovare ad una freschezza dell’umanità Tutte le grandi civiltà sono nate dall’incontro tra culture diverse e sono morte, meglio implose, quando hanno creduto di potercela fare da sole, dominando tutte le altre – apogeo e declino che va alla distruzione della civiltà.
Quindi, i muri vanno fatti crollare?
L’apertura è anche conoscenza dell’altro, e la conoscenza dell’altro è crescita. Ma questo va letto anche in modo teologico: il piano di Dio di costituire una sola famiglia umana in Cristo si realizza anche attraverso le migrazioni. Il nostro fondatore, Giovanni Battista Scalabrini, lo scriveva alla fine del secolo XIX.
È anche una sfida missionaria?
Quando scopro che la mobilità mi porta a casa persone che non hanno avuto la possibilità di conoscere Cristo, la missione viene a casa, la missione viene a me. È la missione dell’annuncio. Non è mai stato timore per i veri missionari, perché lo deve essere per noi? Il cattolico che non si confronta con altra religione perché ha paura di perdere qualcosa di sé semplicemente riconosce di mancare ancora di una solidità nella propria identità.
Eppure queste ondate migratorie pongono anche il problema dell’integrazione, specialmente per quanto riguarda i fedeli di religione islamica, che si chiudono – o vengono chiusi – in ghetti e rischiano, se non di radicalizzarsi, almeno di creare disordine sociale, come è successo nella banlieu in Francia…
Penso – ed è una mia convinzione personale – che tutto dipenda dal fatto di avere adottato un sistema di integrazione che ha relegato alla vita privata la parte spirituale. Un sistema che non ha mai considerato quella spiritualità e quella religione una dimensione importante della nostra integrazione. Come a dire che quando stiamo insieme non parliamo di religione. Per noi che crediamo, la religione è la dimensione realizzativa della persona. Dall’altra parte c’è stata molta ignoranza, si dà per scontato che siccome tu vivi a fianco, vicino di casa, io ti conosco. Invece si devono creare spazi appositi per permettere la conoscenza del diverso, dell’altro, degli altri che si trovano oggi a condividere il mio spazio.
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Questo è un lavoro che dovrebbero fare le parrocchie?
Ci siamo capiti. Forse abbiamo dato poca importanza a questo lavoro. Sì, ci sono comunità, movimenti, che hanno il dialogo interreligioso come priorità. Ma in tante parrocchie si nota ancora molta resistenza a muoversi all’incontro del diverso.
Questo risolve il problema dell’integrazione?
La domanda che ci si deve porre, quando si guarda a fenomeni come quello delle banlieu è: dove sono cresciute queste persone? Al centro della società o nelle periferie? La reazione cui abbiamo assistito, radicalizzazione, è qualcosa che nasce nel momento in cui mi trovo bene dove sto o quando ho avversione, senso di rigetto, rivendicazione nei confronti di chi doveva darmi e non mi ha dato? Ci sono studi che dimostrano che l'essere migrante, di un’altra etnia, non causa maggiore propensione alla violenza. E’ invece la vulnerabilità del posto dove la persona si trova che può generare una maggiore propensione alla criminalità. Allora, si può lanciare un suggerimento: che nelle politiche migratorie dei nostri paesi la predisposizione delle comunità locali all’integrazione non resti lettera morta, ma diventi un programma attivo, con grande investimento.
Quanto secondo lei è contata l’esperienza di Papa Francesco in Argentina, in questa situazione migratoria così particolare?
Il Papa viene dall’esperienza personale di una famiglia italiana emigrata, antenati che arrivano, vivono , si fanno la vita in un quartiere normalissimo. Diventa più forte di fronte alla considerazione che tra i cattolici che era stato chiamato a guidare ci fossero centinaia di migliaia di migranti, in condizioni anche precarie, con molti irregolari. L’arcivescovo Bergoglio si è fatto poi portavoce delle vittime della tratta, come una evoluzione di preoccupazione del migrante. Una preoccupazione che va dalle villas fino alle vittime della tratta. Una evoluzione che ha segnato il suo cuore.