Roma , lunedì, 19. dicembre, 2016 9:00 (ACI Stampa).
Di commenti più o meno teologici sulla “Misericordia” durante l’Anno Giubilare ne sono stati fatti molti negli ultimi mesi, ma una riflessione per i sacerdoti fatta da un giudice della Rota Romana è qualcosa di molto specifico. Diritto e vita vissuta si intrecciano con la spiritualità. "Misericordioso e giusto. Il vero volto del Padre" edito da Tau nasce dal riflessioni con il clero diocesano nell' Anno della Misericordia.
Monsignor Amenta, la Sua riflessione parte dalla vita vissuta o più dal diritto canonico?
Da ambedue. Come Lei ha ben intuito, nella mia vita la spiritualità sacerdotale si intreccia – direi indissolubilmente – con le mie esperienze di vita dedicata per la maggior parte allo studio ed all’applicazione del diritto ecclesiale nella Curia Romana. Di conseguenza, accettare l’invito a parlare a confratelli, ha significato necessariamente non solo parlare di una attività, ma soprattutto di come una vita dedicata al diritto può compenetrare la vita di un sacerdote, anche se possono sembrare due cose estranee l’una all’altra quasi che un sacerdote, dedicandosi ad una attività come la mia, smetta di fare il prete per fare il magistrato o il professore, spinto da una necessità contingente della Chiesa. Al contrario, si può e si deve fare questa attività senza dimenticare di essere anzitutto sacerdote e pastore, come ci ha molto opportunamente ricordato ultimamente papa Francesco. Ed allora, accettando di parlare ai miei confratelli, ho dovuto fare come un’opera di «archeologia della coscienza», per scovare nel mio intimo come un sacerdote invera nella sua vita ed attività queste due fondamentali virtù cristiane, la misericordia e la giustizia. Rimane naturalmente la mia una esperienza singolare e parziale, molto personale, ma dalla quale penso che anche i confratelli che non condividono la mia missione particolare possano trarre qualche spunto di riflessione.
Giustizia e misericordia sono le due parole che in qualche modo si rincorrono per tutto il testo a cominciare dal titolo. Perché è tanto difficile coniugarle insieme?
Forse perché non sono rettamente intese. Come spiego nel mio testo, il mondo greco e latino, di cui è figlia la nostra cultura, ha indotto un significato antagonistico ai due concetti di misericordia e giustizia, significato invece del tutto estraneo al mondo semitico, e quindi biblico. Se perciò recuperiamo quel senso originario, biblico, capiremo presto che misericordia e giustizia non si contrappongono ma costituiscono due aspetti di un medesimo atteggiamento, l’una potremo dire prodromo dell’altra e l’una perfezionamento dell’altra. D’altronde anche la giustizia intesa come virtù umana, senza alcuna connotazione cristiana, ha sempre cercato il suo stesso superamento in una dimensione superiore, quella dell’equitas, che il giudice può ottenere o raggiungere solo se supera la lettera della legge. I Romani, sommi giuristi, dicevano: summum ius, summa iniuria, insinuando – con questa massima – che la sola lettera della legge, se prescinde dall’umana aspirazione ad una giustizia superiore, può trasformarsi nel suo contrario perché la legge, in quanto strumento umano, porta in sé pur sempre il marchio dell’umana imperfezione. Da qui nasce l’esigenza, potremmo dire, il postulato di una dimensione superiore di giustizia che, nel pensiero cristiano, è data dalla misericordia che non contraddice ma compie la giustizia e la porta alla sua perfezione. E tutto ciò imitando la giustizia e la misericordia del nostro Padre Celeste.