Roma , mercoledì, 30. novembre, 2016 18:00 (ACI Stampa).
Sono 27,8 milioni le persone sfollate nel 2015 secondo i dati del Internal Displacement Monitoring Centre e del Norwegian Refugee Council, di cui la maggior parte – 19,2 milioni – per disastri naturali. Numeri importanti che impongono all’agenda politica e alla comunità scientifica una riflessione attenta e comune.
Se l’Accordo sul clima di Parigi mostra che nei confronti dell’ambiente cresce la consapevolezza che bisogna agire e che “ognuno deve fare la sua parte”, resta un vulnus importante sulla questione che riguarda le principali vittime del degrado ambientale e del cambiamento climatico, i poveri.
Milioni di esseri umani che ogni anno si mettono in cammino – spesso all’interno dei confini nazionali – per fuggire a eventi catastrofici chiedono l’attenzione internazionale e quella religiosa per definire il loro presente e costruire il loro futuro. Chi fugge dal proprio Paese a causa di cambiamenti climatici o per il progressivo degrado ambientale o per disastrasti violenti ed improvvisi non è riconosciuto come rifugiato né dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e né dal Protocollo di New York del 1967, è senza una tutela specifica nella maggior parte dei casi (Italia, Stati Uniti e pochi altri Paesi prevedono nella legislazione una forma di protezione) e viene considerato come un migrante economico. Quale futuro allora per i profughi e i rifugiati ambientali?
È di loro che parla l’ottavo libro della collana Quaderni Migrantes della Fondazione Migrantes, “Senza casa e senza tutela. Il dramma e la speranza dei profughi ambientali” (Tau editrice) scritto dalla Dott.ssa Carlotta Venturi. Un tema oggi più che mai attuale che riguarda tutta l’umanità e che impone una riflessione attenta e puntuale per essere compreso in tutta la sua complessità. L’autrice inizia l’analisi cercando di capire – attraverso lo studio di ricerche scientifiche internazionali – l’esistenza o meno di un legame diretto tra il cambiamento climatico o il degrado ambientale e la migrazione forzata; per riflettere, in secondo momento, con lo sguardo e le risposte della Dottrina Sociale della Chiesa – in cui trovano spunto e fondamento le conclusioni – su come considerare chi emigra a causa di problemi climatici o ambientali.
Senza entrare nel dibattito se siano rifugiati o migranti – se ci siano cioè le condizioni per definirli in uno o in un altro modo – l’Autrice propone un nuovo punto di vista con cui affrontare e osservare il fenomeno: quello della solidarietà.