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Rifugiati, la necessità di una nuova narrativa. La risposta di AVSI

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Coinvolgere le comunità locali; affrontare le pratiche discriminatorie; coinvolgere sempre più i media, che hanno un ruolo cruciale. Rana Najib proviene dalla Siria e lavora da quattro anni con l’AVSI, l’Ong di ispirazione cattolica fondata 44 anni fa che oggi opera in più di 30 nazioni. E lo scorso 18 luglio ha spiegato questa sua ricetta alle Nazioni Unite di New York, prendendo parte a un incontro informale di supporto all’incontro plenario di alto livello in cui si affrontava il problema dei grandi movimenti di rifugiati e migranti.

L’esperienza di Najib è importante per vari motivi. Perché proviene dalla Siria e lavora in Libano, il posto forse più colpito dall’emergenza rifugiati – ne sono arrivati più di 1,1 milioni, facendo del Libano il posto con il maggior numero di rifugiati per cittadino. 

Come combattere la discriminazione nei confronti dei rifugiati? Prima di tutto – spiega Najib – si tratta di impegnare le comunità locali, coinvolgendo insegnanti, operatori sociali e anche figure religiose. Questi devono essere chiamati “a lavorare a contatto con i rifugiati con progetti sociali ed educativi”. “Partecipando a questi progetti, la comunità ospite può essere consapevole delle condizioni dei rifugiati, ascoltare i loro problemi, percepire le loro sofferenze e venire a sapere di più riguardo le situazioni che li hanno forzati a lasciare le loro nazioni”.

Quindi, si devono analizzare le pratiche di esclusione e discriminazione messe in atto “per evitare che i rifugiati prendano effettivamente parte alla società”, una pratica che molte volte porta ad “uno spreco di talenti”. Anche perché “alcune di queste pratiche includono la proibizione ai rifugiati di lavorare, togliendo così loro l’opportunità di entrare nelle forze lavoro, come sta già accadendo”.

E poi, c’è la necessità di diffondere buone storie attraverso i media. La storia di uno studente siriano che è stato il secondo voto più alto negli esami di laurea in Libano “è stata ampiamente diffusa in Libano, ed è stata un buon esempio del ruolo dei media nel ridefinire la narrativa su migranti e rifugiati”.

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I problemi sono sempre gli stessi, sottolinea Najib. In primis, la cattiva narrativa usata “costantemente” dai politici sui rifugiati per cercare consenso, motivo per cui si deve partire dal basso e creare una nuova cultura. Per questo, si deve arrivare a comprendere “che vivere insieme può essere una esperienza positiva e arricchente” e non una “condizione negativa da evitare a tutti i costi”, dato che “quando la maggioranza della società considera che questo pluralismo è un valore aggiunto, allora i leaders e i media dovranno in qualche modo affrontare il tema”.

Najib fa l’esempio dell’evento organizzato dall’AVIS per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato in Libano. Sono stati invitati gli scout del Libano i quali “all’inizio erano riluttanti nell’approcciare i bambini siriani”, ma “durante il giorno hanno cominciato a comunicare”, finché non hanno creato una specie di amicizia.

È questo l’impegno delle Ong, chiamate a creare sempre più eventi come questo, mentre la comunità scientifica “sarebbe bene conducesse una ricerca” per fornire “raccomandazioni pratiche per combattere la xenofobia”. “Credo – afferma Najib – che è estremamente impotante che l’Accademia resti in contatto con la vita concreta”.

Invece il settore privato “dovrebbe costruire forti partnerships con le organizzazioni che lavorano a contatto con i rifugiati”, e “quando possibile, dovrebbero anche dare ai rifugiati la possibilità di impegnarsi in addestramento per creare lavoro”. Un impegno che potrebbe essere “buono anche in termini di business.”