“Certamente con rispetto e gratitudine. L’Aiart nasce nel 1954 in concomitanza con l’inizio delle trasmissioni televisive in Italia. Da allora fino ai giorni nostri l’informazione ha sempre rappresentato uno dei generi imprescindibili delle policies mediali perché assicura pluralità, favorisce l’integrazione e fornisce bussole per orientarsi nella complessità del contemporaneo.
Nello stesso tempo l’Associazione, nel rispetto della sua mission, si pone come sentinella critica verso un ecosistema informativo che sovente perde di vista le sue coordinate deontologiche e diventa mero veicolo di sensazionalismi. E’ urgente, ad esempio, arginare le derive oscene che certa informazione alimenta mostrando senza filtri scene di dolore, di sofferenza e di morte (pensiamo alla tragedia di Nizza o alle conseguenze del golpe in Turchia).
Non si tratta di censurare il diritto di cronaca o la liberà di stampa ma di far capire a certa informazione (e a certi ‘professionisti’) che non tutto è notiziabile e che a volte è bene fermarsi nel rispetto della dignità dello spettatore che è anzitutto, una persona”.
Quale relazione esiste tra il mondo dei media e lo spettatore?
“La definirei una relazione di ‘prossimità esasperata’. Lo spettatore rischia di essere fagocitato da una logica di visione estrema. Il suo sguardo è molteplice perché molteplici sono le opportunità di visione (sempre più attuale è, ad esempio, il dibattito sul ‘second screen’). Nello stesso tempo, l’idea di spettatore risulta limitante in una contemporaneità mediale che ci permette di essere creatori e fruitori nello stesso tempo”.
C’è il rischio che la società dell’informazione possa in realtà diventare la società dell’omologazione?
“Il rischio c’è se si ragiona nella logica dello spettatore passivo. Con la cultura digitale tutto è disponibile, ognuno di noi trova risposte a ciò che cerca in tempi brevissimi. Questa dimensione rischia di creare individui pigri, disimpegnati e, di conseguenza, irresponsabili e omologati. Questa deriva potenziale può contrastarsi attraverso un’efficace azione pedagogica”.
Come educare alla medialità?
“Nel nostro ultimo libro (‘Umanità mediale. Teoria sociale e prospettive educative’, ndr) io e Filippo Ceretti proponiamo l’idea di ‘meducazione’. Si tratta di un neologismo che indica l’opportunità di accompagnare l’uomo mediale con un’attenta riflessione sulle nuove pratiche di comunicazione digitale. Oltre alle competenze tecniche saranno, quindi centrali, azioni come lo sviluppo dell’autonomia personale, della responsabilità civile, dell’espressività consapevole. Insomma, si tratta di ‘tornare’ a educarsi alla virtù del buon cittadino. Anche nei media”.
‘Pokemon go’ è l’ultimo fenomeno di una realtà virtuale: come far conoscere ai giovani l’autenticità della vita?
“Pokemon go va oltre la realtà virtuale perché sfrutta il meccanismo della realtà aumentata: attraverso un dispositivo vedo nel reale quello che i miei occhi non riescono a scorgere. Naturalmente si tratta di un’illusione pensata e promossa da una multinazionale in relazione alle proprie logiche commerciali.
Come tutte le proposte ludiche digitali, il rischio è quello di abuso e uso distorto. Dobbiamo ricordarci che ogni esperienza mediale altro non che è la risultante del nostro agire. Sta all’uomo discernere e bilanciare la sua presenza e le sue energie in spazi di questo tipo”.
Infine, come sarà la ‘sua’ Aiart?
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“L’Aiart è in corso di rinnovamento. Credo sia fondamentale svecchiarne mentalità, cambiare linguaggio (c’è qualcuno che ancora utilizza il termine ‘mass media’), reimpostare la prospettiva culturale e superare logiche autoreferenziali e personalistiche. Solo in questo modo l’Associazione potrà sopravvivere ed essere competitiva di fronte alle sfide che la complessità dell’attuale società propone”.