Dal punto di vista diplomatico il tema è quello della scelta di quello che gli inglesi chiamano engagement, cioè l’ingaggio, piuttosto che rifiutare fin dall’inizio delle posizioni che sono molto lontane da quelle della Chiesa. Con l’accettazione di alcuni rischi. Ad esempio quando il Papa scrive a Putin che presiede il G20 sul conflitto siriano, per evitare quello che nel 2013 si configurava come un possibile intervento militare, si rende perfettamente conto del rischio che questo possa essere strumentalizzato o letto in una logica di parte dalla Russia in quel momento. Ma dall’altra parte c’era la possibilità di una guerra, quindi un rischio calcolato che però fa parte anche del coraggio del Papa.
Si può definire Papa Francesco un Papa globale ?
E questo è proprio il tema. Io credo che siamo oltre la idea della globalizzazione. Tutto sommato la globalizzazione è la estensione di un modello economico, politico e sociale che nasce in Occidente e va verso il mondo. Invece si deve essere universali. La globalizzazione di per sé non è universale, il Papa tenta di recuperare, attraverso la grande metafora della periferia, tutte quelle visioni e prospettive dell’ordine, o del disordine mondiale, che non corrispondono necessariamente alla globalizzazione occidentale. Questo è un cambiamento di prospettiva.
E si può definire un Papa pacifista o no ?
Se per pacifismo si intende un atteggiamento di accomodamento, di buonismo preconcetto, certo questo non è l’approccio di Francesco. Piuttosto il suo approccio è basato su quella che molti chiamano la parresia, cioè la capacità di poter dire pane al pane e vino al vino, anche al rischio di qualche conseguenza sotto il profilo diplomatico. Basta vedere il caso dell’Armenia, o l’accordo firmato con lo stato Palestinese, sono tutte posizioni che non hanno avuto un consenso unanime in campo internazionale. Ma il Papa ha ritenuto che fosse questa la strada da seguire.
In uno dei suoi discorsi da cardinale di Bergoglio si trovano tre tensioni bipolari: tra pienezza e limite, tra idea e realtà e tra globalizzazione e localizzazione. E quattro principi: il tempo è superiore allo spazio, l’unità è superiore al conflitto; la realtà è superiore alle idee: il tutto è superiore alla parte. Come si riflettono queste idee nella diplomazia del Papato?
Quando si parla di diplomazia in relazione alla Santa Sede c’è da ricordare che è un po’ particolare. Io la chiamo diplomazia mondialista, che però non va intesa come dimensione spaziale. E da questo punto di vista credo che quello che prevale nell’approccio di Papa Francesco è la dimensione del tempo nella diplomazia, recuperare il passato e guardare al futuro. Mi sembra un grande investimento anche per le nuove generazioni. Non credo che il Papa si illuda di porte risolvere i problemi della politica internazionale con una sola presa di posizione, però investire in una diplomazia della pazienza e in una diplomazia dell’ingaggio mi sembra un modo di recuperare alla diplomazia la dimensione del tempo ben al di là di una logica geopolitica.
Allora arriviamo all’ Europa. Il Papa è stato premiato per il suo impegno per l’ Europa. Cosa significa per il Papa l’Europa, e si può dire che ha la stessa passione che avevano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Papi europei, o è una visione diversa perché Francesco viene dall’America Latina?
Il Papa viene dall’America Latina, ma non è totalmente estraneo alla cultura occidentale. Anche perché in America Latina, specialmente nel cono sud, ci sono rapporti molto stretti con l’Occidente, storici e culturali, senza dimenticare le migrazioni che dall’Europa hanno popolato l’ America Latina. Il suo apporto è quello di un europeismo privo di eurocentrismo. E questo ci fa percepire quello che dice il Papa in un modo abbastanza nuovo, non tanto come estraneità alla vicenda europea, ma come una nuova collocazione dell’Europa in un contesto molto più ampio. Non significa non dare all’ Europa il ruolo che le spetta, ma non significa ridurlo in una prospettiva che ormai, anche a livello internazionale, tutti ritengono che sia multi polare.
Pensa che nel discorso per il premio Carlo Magno ci sarebbe stato bisogno di sottolineare il tema delle radici cristiane dell’Europa?
Anche in questo caso è stata una scelta di concretezza. Perché più che un discorso sul fondare o meno l’Europa sulle radici cristiane, il tema è fondare o rifondare l’ Europa sulla base di frutti cristiani. E’ di quelli che si sente la carenza oggi in Europa. Certo il tema delle radici è consegnato al grande dibattito culturale e antropologico, ma dal punto di vista politico, o meglio delle politiche, che è il punto di vista che interessa di più al Papa, si dovrebbero vedere di più i frutti cristiani, in termini di solidarietà. E non parlo solo di migranti, ma anche ad esempio del trattamento riservato alla Grecia, a questa sorta di divisione tra l’ Europa dei virtuosi e quella mediterranea dei dissipatori. Ci sono nuove linee di fratture all’interno dell’Europa che non bisogna sottovalutare.
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